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un'affermazione prevedibile
Senza rispondergli, attesi. Sospirò e guardò in fondo alla strada verso casa mia, poi il suo sguardo seguì una macchina di passaggio. Alzò gli occhi verso la massa di nuvole bianche, si scrutò le unghie della mano destra, ma non ebbe il coraggio di fissarmi in faccia. Quando alla fine parlò, direi che lo sguardo gli si era posato su una fenditura del marciapiede.
“Non è poi che mi dilunghi spesso su di un solo argomento, vero?”, ripeté. Io sorrisi. Quel mio sorriso sembrò dargli più sicurezza.
Ma doveva sempre aspettare: ero io quella che avrebbe dovuto muoversi per prima. Mi rigirai fra le dita le chiavi di casa per parecchio tempo. Vidi la barba sulle sue guance, ora ridiventate pallidamente rosee: era riluttante a crescere.
Finalmente gli risposi.
“Mi hanno detto che ti cresceranno le tette”.
Lui aggrottò un poco le sopracciglia: si chiedeva se avesse sentito bene. Scrollai la testa da un lato, compiaciuta. Gli feci segno di salire in casa, così gli avrei spiegato.
Lui si guardò intorno, in cerca di qualcosa, forse un pizzico di autoironia. Si aggiustò il borsello sulla spalla, con un gesto di sofferenza. Era lì dietro a seguirmi, zoppicante, mentre aprivo la porta: si richiuse velocemente, con uno scatto.
Entrato in casa, gli chiusi la porta alle spalle, dolcemente. La prima cosa che fece fu accendersi una sigaretta. Lo lasciai aprire la finestra della cucina, mentre mettevo il caffè sul fuoco. Mi chiese dei ragazzi, così, per rendere la conversazione naturale.
“Come stai?”. Poche volte lo avevo sentito così affettuoso.
“Io, bene. Ho ancora una settimana di riposo, poi, ho già detto al medico che penso di tornare al lavoro”.
“Pensi?”.
“Almeno le ultime due settimane. C’è da terminare il lavoro con i bambini. Ci sono tante cose”.
Mi resi conto di gesticolare troppo. Strinsi forte la sedia sotto le mie mani. Eravamo tutti e due in piedi.
Dissi che era stato carino da parte sua venirmi a trovare: un’affermazione prevedibile.
“Che ti hanno detto, i medici?”, mi chiese di nuovo.
Era strano che volesse ascoltare queste cose anche da me: gliele avrebbero dovute dire comunque. Versai il caffè nelle tazze, e gli allungai sul tavolo la sua. Spense la sigaretta, non era ancora finita, e si sedette. Scostai la sedia anch’io, ed appoggiai i gomiti sulla tavola bianca. Aspettai l’aroma denso del caffè invadermi la bocca.
“Il trapianto è andato ottimamente, come avrai potuto osservare…”.
Intrecciai le mani, poi continuai. Lui fissava il bordo della tazzina, dove si era depositata, sottile, una striscia marrone di resti di caffè.
“Semplicemente, dovrai sopportarmi ancor più di prima. Il sangue non c’entra: è forse l’unica cosa in cui abbiamo scoperto di essere compatibili. No, il fatto è che ora hai parte del mio midollo nel tuo, con i relativi scompensi: è come se stessi passando una nuova pubertà, dalla parte sbagliata…”
“Mi cresceranno le tette?”, chiese, indeciso se sentirsi più allarmato o divertito. Non riuscii a frenare un debole ed isterico moto di riso.
“No, questa è una curiosità che ho chiesto io…”.
Aspettava un però: c’era sempre, un però.
“…però, mi hanno detto che è una cosa probabile: è normale, hai ormoni femminili in maggiore quantità, rispetto al passato. Può capitare che ti condizionino in alcuni aspetti, per la vecchiaia…”.
Lasciai penzolare la mano destra in avanti, insolente.
“Che so, magari ti donerà quello che io non ho mai avuto, tutto questo. Le tette, intendo. Lo spero, sai…”.
Mi fissò. Non era frastornato: era solo stanco. Ricevere un pezzo di me gli aveva dato energie di cui non sapeva che farsene.
Tutto era sotto controllo. Mi faceva ridere, per le solite cose.
Ma quando guardavo mio fratello in viso, lo facevo con un filo di disgusto: mi sembrava di specchiarmi, era una sensazione che non avevo mai provato. Mi sentivo dalla parte diversa: ora non ero più io, a custodire il seme d’altri.
“Come credi che andrà a finire, voglio dire…”, iniziò, ma si interruppe subito. Si alzò, pose la tazzina sporca al suo posto, nel lavello. Guardò fuori la finestra: i suoi occhi probabilmente cercavano di scavalcare gli angoli scuri dei palazzi lì intorno, avrebbero voluto vederci chiaro.
Non sapevo cosa potessi dirgli. Tentavo di cavarmi fuori frasi che avessero un senso, un senso compiuto. Mi ero tolta gli occhiali, e mi sfregavo gli occhi, con rabbia. Per tutto il tempo che gli servì a girare le spalle ed annunciare che doveva andare a casa, le parole rimasero lì, ostinate, senza fiato. Sospirai, guardai oltre la finestra, in fondo alla cucina: una macchina era ferma alla precedenza, aspettava il permesso di ripartire. Lo accompagnai alla porta.
“Torna quando vuoi. Lo sai, che fare quattro passi all’aria aperta ti farebbe bene”.
Lui non rispose, non disse niente. Alzò lo sguardo verso il soffitto giallognolo del giro scale: c’erano delle chiazze di muffa, qua e là, incerte. Fece un gesto con la mano, ad accompagnare il saluto.
“Ciao”, ribadii io.
Si voltò verso l’ascensore, deluso: era occupato. Stavamo al primo piano, e mentre lo guardavo scendere le scale, vidi che stava scrupolosamente attento a dove metteva i piedi. Piano, feci scivolare la porta. Mi massaggiai la schiena, cingendomi i fianchi. Si era intrufolato un refolo di vento. Presi a preparare la cena. Sbirciai fuori, e finche potei cercai di seguirlo con lo sguardo mentre camminava verso casa. Fissava le luci dei lampioni, come se dovessero spegnersi da un momento all’altro.
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