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D.
Ore 12:34, giovedi credo. Non ho voglia di controllare. Questa stupida idea di appuntare i miei pensieri si sta rivelando una seccatura. Inizialmente poteva sembrare un buon modo per passare il tempo, ma forse sottovalutavo il fastidio che danno gli ordini imposti dall’alto. Quello che so, e questo sembra essere una cosa apprezzata, è che so che è “per il mio bene”.
Cazzo, vorrei conoscere qualcuno che usa questa locuzione senza virgolettarla, ovvero nella sua forma pura, convinto del valore di quelle quattro parole collocate ordinatamente una dietro l’altra.
Certo, fare le cose controvoglia, odiarsi per il modo succube con cui si risponde presente agli ordini, cazzo se non si fa per il proprio bene!
Comunque quello che qui sembra certo è che ho un problema.
Da qualche parte ho letto che il solo ammetterlo vuol dire già trovarsi a metà del percorso di guarigione.
Già, vallo a dire a chi ha un cancro.
Ecco, forse l’unico risvolto positivo della mia condizione è che il mio sarcasmo è arrivato quasi a livello dei peggiori professionisti della satira.
Per oggi basta, la mano continua a tremarmi, e per fortuna questo non ha ripercussione su materiale scritto al computer.
Però basta a contrariarmi.
Ore 15:52, venerdi credo, se ieri era davvero giovedi. Come ieri, non ho voglia di verificarlo. Oggi scriverò poco perché la mano destra è fuori uso. Non potevo certo immaginare che non sarebbe uscita indenne da un pugno sferrato contro una scrivania di mogano.
Resistente il mogano.
Ecco perché ci fanno le chitarre.
Comunque, non ho trovato quello che cercavo, ed il modo migliore che ho trovato per sfogare la rabbia è stato questo.
Si vede che la droga ti mangia i neuroni.
E ora, fanculo, non posso neppure suonare.
Devo trovare la lettera, non posso abbandonarmi all’idea di averla persa. Non è giusto, cazzo, tra tutte le maledette cose che possono benissimo andare a farsi fottere, non la sua lettera.
Cazzo.
Ore 13:32. Come sto? bene, grazie, dell’interessamento.
Quello? Si, è il mio vomito Si, vi ho detto che sto bene, no, deve essere qualcosa che ho mangiato, ma no, figurati se l’eroina ti fa vomitare. Le occhiaie? È che ultimamente ho difficoltà a prendere sonno. No, ho già provato, la valeriana non funziona.
Comunque grazie per i preziosi consigli.
Imprescindibili.
Ora, se non vi dispiace, provo a tirare fuori il mio nuovo capolavoro dalla cara vecchia Martin a 5 corde (indovinato, il mi cantino ha detto ciao ed in queste condizioni non immagino come potrei sostituirlo).
Ore 23:49. Ogni mattina è sempre peggio. Ogni maledetta mattina, puntuale senza saltare ma un appuntamento, la Fame arriva, mi prende allo stomaco. Mi azzanna, mi trascina via.
Ormai faccio sempre più fatica a raggiungere il bagno.
Faccio ancora più fatica a guardarmi negli occhi, per quell’attimo che mi separa dalla mia dose.
Per il resto, non faccio altro che guardarmi le scarpe. Shoegazing, lo chiamerebbero alcuni, ma per tutt’altro motivo. Faccio schifo, anche al mio riflesso, è sempre lui il primo a distogliere lo sguardo, a lasciarmi qui nel mondo reale.
Ma senza, non ce la faccio.
Senza, non riesco nemmeno a provare disgusto per me stesso.
Per quanto si regredisce, è uno stato simbiotico a tutti gli effetti. Io sono Lei, e Lei è me.
Ore 10:04. Oggi. Ho composto un nuovo pezzo, stamattina, tra i fogli sparsi per terra e i miei liquidi organici. È paradossale che sia ancora a scrivere, che nonostante tutto questo vecchio pc tenga botta, ed io con lui. Sarà l’umana voglia di lasciare un segno, anche a costo di ridurlo a patetico resoconto dell’agonia di un individuo.
Ore 23:04. Oggi. Sto svanendo. Scompaio poco a poco da questo piano della realtà. Ho smesso ormai da tempo di fare nuovi buchi alla cinta. Non c’è motivo di temere di fare brutte figure con i pantaloni a penzoloni.
Anche perché, passando la maggior parte del mio tempo steso (buttato, direbbero alcuni) in terra, non si nota nemmeno.
L’unica persona con cui posso fare brutta figura è me stesso, ed io non sono solito giudicarmi dalle apparenze.
E poi, non immagino come potrei provare più disgusto per me stesso di quanto ne provi adesso.
Comunque, mi sto dilungando.
Come dicevo, ho composto un nuovo pezzo.
La chiusura di accordi sul do non mi convince ancora, rende il giro un po’ melenso e molto banale, ce ne sono milioni così, nel 2008 non si può chiudere un giro sul do a cuor leggero.
Pensavo ad un do diminuito.
Ora che ci penso, appena avrò la forza, scivolerò verso la chitarra e proverò.
Ottimo.
Ore 03:45. Oggi. Se guardo alla mia vita, non so se ci sia poi tanto di cui lamentarsi. Ci sono finito da solo qui dentro, non mi ci ha spinto nessuno.
Sono un prodotto della società, certo.
Sono un prodotto dei miei geni, sicuro.
Sono anche una combinazione delle due cose, naturalmente.
Ma in definitiva, io sono io e non posso dare la colpa di questo a nessun altro. Giustificazionismo, direbbe qualcuno. No, grazie, direi io.
Ore 12:35. Oggi. Cazzo. Questo diario sembra sempre di più un grido di aiuto, sembra sempre di più quello che non volevo sembrasse.
Mi sto lasciando prendere la mano dall’umano senso di pietà.
Ore 05:11. oggi diventa ieri ed oggi è domani. Le sinapsi fanno sempre più fatica a far muovere questo corpo macilento. Il loro continuo lavoro non sembra premiato da risultati soddisfacenti.
Maledizione.
Ormai sono un attaccapanni sul quale qualcuno ha steso una pelle umana.
Un fantasma.
Sto svanendo.
I muscoli mi abbandonano.
Grassi lipidi e carboidrati bruciano in questo sabba malefico.
Le fibre nervose battono in ritirata.
La necrosi mi mangia, le piaghe giocano a risiko su di me conquistando i loro territori e conficcando bandierine verdi e gialle nella pelle, i miei dotti lacrimali sono incrostati.
Perfino la melanina sembra non sopportarmi più.
Bianco pallido
Spettrale
Sono un fantasma.
Comprendo di essere niente.
Dicono che in questi casi bisogna trovare qualcosa alla quale aggrapparsi.
Meglio ancora, qualcuno.
(dov’è la lettera?)
Bè, io ce l’avevo, un’ancora.
Prima, quando tutto ciò non sembrava possibile, avevo una bussola.
(dove cazzo sarà finita?)
Avevo la mia costante.
Un tempo.
(maledizione.)
Silenzio.
Dissolvenza sul bianco.
Ore 04:38
Ah ah ah.
Fanculo il clichè della rockstar.
Sembrava tutto così figo, no?
Avrei potuto farmi un tatuaggio, invece.
Fare da testimonial per qualche marca di occhiali da sole.
No, io no.
Volevo andare più a fondo.
Ed è esattamente dove mi trovo ora.
Ore 12:34. Ho quasi finito il pezzo.
Inizia con un arpeggio stucchevole e retorico, a dir la verità.
E vabbè, lo elimineranno in fase di missaggio.
La canzone è scarna, ridotta all’osso.
Come potrebbe essere diversamente?
È mia figlia, ha seguito il mio percorso di scarnificazione.
È il mio specchio.
Pelle e ossa.
Voce e chitarra.
Via tutti gli orpelli, tutti gli abbellimenti.
Via la coda strumentale.
Solo la sostanza.
Un solo giro prima di far entrare la voce.
Solo per avere qualche secondo in più per coordinarmi.
Tipico pezzo in chiusura dell’album, classico momento per tirare fuori gli accendini, melodia zuccherosa e braccia intorno alle spalle di qualcun altro, silenzio assoluto tra la folla, tanto da poter sentire il rumore che produce il plettro, il suo leggero grattugìo.
Ore 12:34
Lasciare qualcosa.
Lasciare un’ultima cosa.
Segno
Testimonianza.
Un ultimo pezzo,
un ultimo brano,
un bis senza concerto,
una traccia di chiusura
un ultimo salto al pubblico
il commiato
l’addio
il saluto
buonanotte
che ore sono? La sua lettera, ecco cosa mi rimane.
Non è un’ancora, non è nemmeno una zavorra che rallenti l’ineluttabile deriva.
È però l’ultimo segno tangibile, l’unica materializzazione del bene che qualcuno ha provato per me.
Sai, chiunque tu sia, la cosa buffa della scrittura è che lascia una traccia, una traccia indelebile, rende immortale il momento, per certi versi è innaturale.
La scrittura fissa qualcosa di mutevole come il pensiero, portando all’equivoco che quello che uno scrive rispecchi un pensiero che si conserva uguale a se stesso per sempre, o quanto meno per molto tempo.
Ecco, è come scattare una foto ad un cavallo che corre: la foto ti dà l’esatta posizione, l’esatto gesto, la precisa collocazione spaziale, ma non dà il movimento, il fluire, lo scorrere.
La foto è l’inganno, perché ferma qualcosa che in realtà è in movimento, perché è contro il naturale svolgersi dell’esistenza che ci si fermi in certe posizioni, che ci si fermi mentre si sta correndo, e si mantenga quella posizione.
Difficilmente si pensa a qualcosa di scritto come dettato dal fugace sentimento che in quel momento guida la mano.
E quindi scrivere cose forti, usare parole come amore, sentimento, unico, pelle, bacio, sempre, diventa pericoloso. Pericoloso perché le parole si dimenticano, mentre ciò che è scritto rimane, e se si dimentica lo si può rivedere, o peggio ancora, non si può evitare di rivederlo.
La responsabilità della parola scritta è enorme, ma nessuno sembra assumersela seriamente.
Ore 12:34. Ma non credo. Già, credo proprio che fuori sia buio, o questa e l’impressione che ricavo dal riflesso della finestra. L’orologio deve essersi fermato.
Premo play e rec contemporaneamente sul fedele quattro piste.
-colpo di tosse-
gran pensata, seppur spontanea: aumenta il senso di grezzo, di puro.
Il plettro sfiora le corde.
-ho quasi sbagliato-
la mano sinistra è riuscita appena in tempo a posizionare il mignolo sul re della seconda corda.
Ok, il primo giro è andato.
4/4. 4 accordi, 4 battute.
Un classico.
Non cambierà la storia della musica, non è il mio intento.
Ecco, al prossimo attacco, entra la voce.
Al prossimo Mi7, farò rantolare le mie corde vocali un’ultima volta.
Dal mio letto di morte
Dal mio stomaco rabbioso
Dalla mia testa vuota
Dalle mie mani tremanti
Dalle mie vene non più vergini
Io vi saluto
Quello che sono
Quello che ero
Tutto suona come un clichè
La mia pelle
Un costume cavo
Ormai indossato da cosi tanto
Una seconda pelle, la mia pelle
Sono io a parlare
O le medicine
Sono io a parlare
O lo senti anche tu?
Quello che sono
Quello che ero
Tutto suona come dire niente
Dai miei 8 metri quadri
Dalle mie lenzuola sporche
Dal mio sorriso sarcastico
Io vi saluto
Quello che sono
Quello che ero
In verità non importa nulla
Dal mio ghigno mesto
Dalla mia voce piagnucolante
Dalla mia testa vuota
Dalle mie mani tremanti
Dalle mie vene non più vergini
Io vi saluto
E comprendo di essere niente
Comprendo di essere niente
Comprendo di essere niente
Silenzio.
Dissolvenza sul bianco.
Titoli di coda.
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