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Fate la carità
Fate la carità
È una tiepida mattina primaverile di un anno imprecisato, in un passato non troppo remoto; in un modesto paese di campagna come tanti altri, un frate rubicondo e giulivo cammina sulla traccia battuta di un sentiero erboso, respirando a pieni polmoni la fragranza di fiori appena sbocciati che aleggia ovunque nell’aria.
Di tanto in tanto scuote allegramente il canestro che porta infilato al braccio sinistro, il manico trattenuto dall’attrito con la ruvida tela del saio, solo per il gusto di sentire il rumore tintinnante delle monete. “Ah, giorno stupendo” mormora cantilenante ”veramente stupendo!” È reduce dalla raccolta alle case del villaggio e ad esser sinceri non trova motivo di lamentarsi, per quanto la gente non sia più incline come un tempo a certe forme di generosità. Egli ben rammenta come uscissero dalle case a precipizio, nel vedere un frate che veniva alla cerca.
Quello stesso gesto, a lungo indice della devota sottomissione e del sacro timore divino dei semplici, viene ormai assolto in maniera sbrigativa e con una sorta di malcelata sufficienza, mista ad una punta di fastidio. Rimuginando questi ed altri pensieri, attraversa orti e campi pieni di poveri contadini bruciati dal sole, chini sulle magre coltivazioni o intenti a pascolare greggi malaticci e stanchi.
In tanta desolazione e povertà, è un piacere veder passare quel gaio fraticello che lancia intorno caritatevoli occhiate di esagerata commiserazione, stringendosi al petto il cesto della raccolta, sospettoso. Quei poveracci abbandonano un attimo le proprie occupazioni per rispondere con un vago cenno del capo al suo religioso saluto e maledirlo in cuor loro.
Arrivato al punto in cui il sentiero disegna un’ampia curva per poi proseguire in decisa salita, il frate si ferma per riprendere fiato. Sfila dalla manica un fazzoletto raggrinzito, sulla cui pulizia è lecito esprimere qualche perplessità, e lo passa energicamente su collo, barba e chierica, ad asciugare il sudore. Da lì è in grado di scorgere una casupola non molto distante, nella cui direzione punta una viuzza sconnessa e pietrosa, che si stacca dal sentiero. Dopo qualche attimo di meditabonda perplessità, riparte di buon passo, giungendo in breve alla misera abitazione. Affibbia un paio di energici colpetti all’uscio, con il pugno chiuso.
“Chi è?” Si sente gridare sguaiatamente da dentro. Prontamente il frate risponde: “Alla cerca!” Una donna dal volto scuro e magro apre la porta e viene fuori stizzita: “Di nuovo voi! Perché non provate a mangiare il pane invece dei soldi, ogni tanto? O le puttane che vi allietano il convento esigono finalmente di essere pagate?” e scoppia in una risata irriverente. Il frate non si scompone: “Bada a come parli, figliola, la carità è santa! Ricorda che ogni elemosina porta frutto e torna sempre a chi la fa.” “Come no” risponde la contadina in tono di scherno “ ma intanto ingrassate voi!”
Così dicendo rientra in casa per prendere qualcosa da mettere nel cesto, ben sapendo che il frate non se ne andrà altrimenti. Di soldi neanche a parlarne; apre cassetti e sportelli, ma li trova tutti vuoti. Tutti tranne uno, in cui fa bella mostra di sé, sorniona, una bella pagnotta di grano scuro. Allora un’idea improvvisa le passa per la mente e per un attimo il suo sguardo grigio e spento s’illumina di crudele malizia. Con fare intrigante afferra il pezzo di pane e lo asperge con alcune gocce di un’essenza velenosa, destinata a ripulire la cucina dagli scarafaggi che la infestano.
Dopo essersi assicurata che il frate non abbia notato nulla, gli consegna devotamente la pagnotta, scusandosi con voce querula per non aver trovato nient’altro. Il frate arriccia un po’ il naso, ma è abituato a non rifiutare nulla e depone il pane nel cesto: “Dio ti benedica figliola e possa ricompensarti giustamente per quello che stai facendo.”
La donna lo guarda allontanarsi e non riesce a trattenere un ghigno sarcastico: “Diavolo di un frate! Voglio proprio vedere se insisterà a dire che l’elemosina torna a chi la fa, dopo che avrà assaggiato quel pane!”
Intanto il monaco sta ridiscendendo verso il paese e già medita di addentare la gustosa pagnotta, quando si vede venire incontro un giovane militare curvo sotto il peso dello zaino. Indossa un’ uniforme lacera ed imbrattata di chiazze scure il cui colore non lascia bene intendere se si tratti di fango o sangue. Un elmetto ammaccato gli penzola dalla fibbia della cintura, urtando le pietre del sentiero con clangore metallico. Egli sembra trascinarselo dietro con stanca rassegnazione, come ingombrante monito delle sofferenze inferte e patite.
Sinceramente commosso, il frate prende la risoluzione di fare una piccola rinuncia per quel giorno e si accosta al giovane con espressione benevola: “Dove te ne vai, ragazzo mio?” Il soldato s’arresta e lo saluta rispettosamente: “ Sto tornando a casa dalla guerra, padre. Da tre giorni e tre notti cammino senza riposare e senza mangiare un boccone, sono sfinito!”
Sentendo questo il frate prende la pagnotta dal cesto e gliela porge. “Immagino che tra poco sarai a casa, ma accetta ugualmente questo dono, ti prego” Il ragazzo prende il pane, commosso, e si china a baciargli le mani, tra le lacrime.
Di lì a poco la contadina che ha donato la pagnotta avvelenata, sente bussare nuovamente all’uscio. Vengono ad annunciarle che suo figlio, di ritorno dalla guerra, è stato trovato morente a pochi metri da casa, avvelenato da un boccone del pane che tiene ancora stretto nel pugno.
Luisa Lorenzoni
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