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Ombre (prima parte)
La vetrina risplendeva di mille colori, e il nero del velluto si rifletteva sul bianco della seta lanciando ammiccanti occhiate agli acquirenti. Giacche, pantaloni, maglie di tutte le taglie sorridevano a coloro che passavano, immagini vaghe di sogni proibiti e forse troppo lontani per essere raggiunti. Il ragazzo stava in piedi sul marciapiedi, e le ombre che si proiettavano dalla vetrina s’incontravano sul suo corpo per disegnare forme incomprensibili agli occhi dei passanti; ma lui non se ne curava, forse nemmeno le vedeva, perso nei sogni dei vestiti che lo chiamavano, chiavi d’accesso ad un magico mondo di desideri e piaceri, piaceri che si concentravano in notti passate in una discoteca- il Karma- e lei che lo guardava e gli diceva mi piaci, ti voglio qui e subito e loro due uscivano insieme ed andavano a passeggiare sulla spiaggia, loro due soli, le mani che si sfioravano e allora non ci sarebbero stati né la spiaggia, né il traffico lontano che gridava né i pedoni che camminavano distratti e indifferenti ai pensieri altrui…solo loro due e lì, in riva al mare, il traffico che gridava ma era lontano, sotto una calma luna primaverile si sarebbero baciati e lei gli avrebbe detto- piano ma la sua voce avrebbe sovrastato il mare: “Ti amo”. Ma per tutto questo ci voleva il vestito, la macchina, l’ingresso per il Karma, e lui, mentre guardava la vetrina, pensava che ci dovesse essere un modo per procurarsi i soldi, e che chissà chiedendo a Trent forse ci sarebbe riuscito- e le ombre si allungavano, invadevano la strada che si riempiva sempre più di pedoni affrettati, con il sole calante che annunciava il sabato sera imminente- e per alcuni, per Eddy tra questi, anticipo della notte esplosiva di sogni, ambizioni e desideri che chissà se si sarebbero avverati.
Una macchina inchiodò, e Trent gettò il mozzicone di sigaretta dal finestrino prima di rispondere con un gesto annoiato al clacson che suonava dietro di lui “Perché ti sei fermato” strillò Lucky, abbassando il finestrino e gettando uno sguardo rabbioso nello specchietto retrovisore.“C’è Eddy - rispose Trent, indicando la figura ferma davanti alla vetrina della boutique. ”Hey, vedi di salire! Che cavolo stai a fare lì!”. Il traffico, bloccato dalla grossa mercedes nera, protestò con tutto il suo coro di clacson e trombe contro la sosta forzata. Il ragazzo sul marciapiede si girò, la mente ancora persa dietro pensieri che sarebbero rimasti segreti per tutti, e accennò un gesto di saluto. Strizzò gli occhi, poi quando riconobbe Trent si portò la mano al taschino e tirò fuori un pacchetto di sigarette. Con Trent aveva sempre fumato -non seppe perché fu questo il suo primo pensiero- e gli uomini non piangono, ma questo non centrava, chissà, e anche se aveva voglia di piangere doveva fare il duro, gli uomini non piangono per ciò che non possono avere, anche se sanno- in un attimo di intensa lucidità- che mai lo avranno- “Hey amico, che racconti, mi dai uno strappo fino a …” e la sigaretta fra le labbra da un’aria da duro, da persona sicura di sé. Eddy a dire la verità non era mai stato molto sicuro di sé, da quando era bambino e giocava in cortile con i suoi coetanei e non sapeva mai che fare, e a volte pensava che neppure Trent fosse molto sicuro di se, ma Trent era cresciuto ed era diventato alto, forte, piaceva alle ragazze, e le sue paure erano rimaste ombre che tormentavano i suoi pomeriggi da adolescente, lontani ricordi che il tempo aveva cancellato. Trent adesso aveva altri problemi, come quello di restituire tutti quei soldi a Rock, e non sapeva proprio come fare.
Eddy salì in macchina, sbattendo la portiera posteriore, e i suoi occhi andarono al sacchetto di plastica che stava sul sedile. Eddy non aveva mai capito come funzionasse la mente di Trent, ma per lui ogni cosa che faceva il suo amico sembrava geniale. Ora, forse un sacchetto con dentro bottiglie piene di liquidi colorati non era niente d’incredibile, ma per Eddy era la conferma che Trent sapeva sempre cosa fare, anche quando Rock voleva indietro i suoi soldi o la roba, e con Rock non si scherzava, quello che si raccontava su di lui parlava chiaro. Eddy rimase a fissare la borsa, senza parlare, formulando ipotesi su quale fosse l’uso di quelle cose, immaginando, anzi pregustando il piano che Trent aveva ideato per fregare Rock, perché solo Trent poteva inventarsi una cosa del genere e lui- accidenti, era la persona adatta per quella genialata. Se la macchina correva lungo il viale alberato verso il mare, voleva dire che presto sarebbero giunti alla baracca sulla spiaggia, quanti ricordi, e lì il gruppo- lui, Trent, Lucky e anche Hugh- avrebbero fregato Rock come si faceva nei film, e con i soldi guadagnati (…fregati!) forse avrebbe potuto comprare il biglietto per il Karma, e chissà addirittura un nuovo vestito, e il sabato sera sarebbe stato magico…insieme a lei.
Quando Trent inchiodò, Eddy fu bruscamente strappato ai suoi pensieri.“Butta via quello schifo”, disse Trent, e Lucky scese dalla macchina con il sacchetto in mano, e mentre lo gettava nel cassonetto Trent commento che era stufo di fare il portantino per le schifezze di quella scema di sua zia. Eddy vide la spazzatura che sparì nel contenitore, e mentre Lucky tornava verso la macchina e il motore si rimetteva in moto, pensò che forse era meglio che la smettesse di sognare. Poi si tastò il taschino, sentì il pacchetto vuoto e chiese a Trent una sigaretta, perché gli uomini veri fumano, e non piangono per i sogni spezzati.
Il ragazzo passeggiava sulla spiaggia, apparentemente senza una meta precisa. Di quando in quando si fermava, lanciava uno sguardo al mare, poi continuava a camminare come se avesse cambiato idea, o come se nell’immensità azzurra che si stendeva davanti ai suoi occhi avesse trovato una risposta ai propri pensieri. A Kevin piaceva andare sulla spiaggia dopo le lezioni, e vagare pensando agli avvenimenti della giornata, sentendosi libero, solo lui e il mare davanti a sé, per ritemprarsi delle lunghe e noiose giornate passate tra i banchi di scuola. Quella mattina era stata particolare, perché ogni volta che parlava con Marion gli pareva che succedesse qualcosa di speciale. Non che la conversazione fosse stata particolarmente intima, anzi era stata giusto uno scambio di chiacchiere fra due amici che si conoscevano da anni, ma ogni volta che Marion gli parlava Kevin si sentiva felice. Forse la cosa più facile sarebbe stata quella di parlarle francamente, di rivelarle quali che fossero i suoi reali sentimenti…ma in effetti no, non era così facile, altrimenti perché non lo faceva? Kevin aspirò profondamente, e cercò di dare una risposta a questa domanda. In effetti, non era facile capire perché non riuscisse ad aprirsi con Marion, ed era da molto tempo che non la smetteva di pensare a lei, eppure ogni volta che le parlava riusciva a tirare fuori solo discorsi banali, come se per qualche oscura ragione trovasse difficile guardare la ragazza negli occhi e dirle…il solo pensiero di fare ciò lo turbava, gli dava un senso di panico che non avrebbe saputo spiegare. Guardò il mare, aspirò avidamente la fresca brezza marina, sperando che quel puro vento che veniva da terre lontane servisse a liberargli la mente, a donargli la lucidità necessaria per fare qualcosa di importante che chissà avrebbe potuto cambiare la sua vita. In lontananza, dove l’orizzonte s’incontrava con il cielo, sagome oscure di navi si muovevano silenziose e fugaci, e Kevin si disse che sarebbe stato bello prendere e partire così, senza una meta, e allora sì che sarebbe stato veramente libero, e basta scuola, basta noiosi professori che trasmettevano stancamente un sapere che non gli sarebbe stato di nessuna utilità, basta lunghi pomeriggi seduto in qualche bar a parlare con persone a lui indifferenti di argomenti che non gli importavano…basta sprecare il suo tempo inseguendo una ragazza che nemmeno lo vedeva. Per un attimo pensò che forse era il caso di smettere di pensare a Marion, ma non appena la sua immagine si formò nella mente di Kevin, questi provò un brivido d’emozione (“ Sarà questo l’amore?” si chiese”). Il solo pensiero di Marion lo rendeva euforico, e al tempo stesso gettava un’ombra cupa sui suoi pensieri. Si ricordava perfettamente quella mattina: loro erano lì, che camminavano per il corridoio della scuola, e a Kevin pareva di stare in paradiso, lì vicino a lei parlare del più e del meno, e mentre dalla sua bocca uscivano solo discorsi banali, nella sua mente le parole dicevano: Vorrei parlarti, devo dirti una cosa importante, usciresti staserà con me, anche solo per bere qualcosa- e quella sera stessa, magari camminando sulla spiaggia, lui le avrebbe preso le mani e le avrebbe detto: Marion, tu mi piaci. Kevin si chinò, e prese una conchiglia che era sulla battigia bagnata dalle onde del mare. Peccato non avergliele dette queste cose, pensò, peccato davvero. Anche perché quando era suonata la campana che indicava la fine della ricreazione, e loro due si stavano riavviando in classe, dal bagno degli uomini, dove sicuramente si era nascosto con gli altri ragazzi per fumare, era uscito Jimmy. Lui e Marion si erano scambiati un saluto, e lei gli aveva sorriso e lo aveva guardato in un modo che a Kevin fece paura. Era uno sguardo di intesa, uno sguardo che parlava di cose che non vengono dette ma che entrambi sanno, un sorriso che valeva più di qualsiasi invito- Marion a Kevin non aveva mai sorriso così. Le voci erano chiare: Jimmy stava facendo il filo a Marion, e stando a ciò che si diceva in giro non è che lei fosse così indifferente alla sua corte. Davanti a Jimmy, con il suo fisico perfetto, il taglio di capelli all’ultima moda, i vestiti eleganti- davanti a quel sorriso, il sorriso di un’uomo sicuro di se- Kevin si era sentito come se fosse inesistente, un’ombra oscurata dal sole, e si era detto, sentendo un brivido di paura, che presto Marion sarebbe stata di un altro, che lui l’avrebbe persa per sempre…e il pensiero lo faceva stare male, male come mai si era sentito in vita sua.
Quando la baracca apparve in lontananza, sulle prime Kevin nemmeno la notò, essendo parte del paesaggio che era abituato a vedere da molti anni a questa parte. Era una costruzione vecchia e in rovina, un antica rimessa per i pescatori quando ancora in quel mare si andava a pescare, che si sgretolava lentamente sotto i raggi impietosi del sole. Un grido attirò la sua attenzione, mettendolo in allarme. Sulle prime Kevin ebbe la tentazione di andarsene, ma la curiosità fu più forte della prudenza. Si guardò intorno, ma sulla spiaggia non vi era nessuno: evidentemente a quell’ora tutti se ne stavano a casa a pranzare. Con fare guardingo si avvicinò alla barcacca, e sbirciò dentro. All’interno scarsamente illuminato Kevin vide varie persone, sagome indefinite che si muovevano convulse nella fiocca luce che penetrava da una finestra semichiusa. Nell’angolo più lontano, tre figure erano a terra, singhiozzando sommessamente. Kevin stava per andarsene, quando riconobbe una di quelle persone: era Eddy, loro due andavano a scuola insieme. Kevin aguzzò la vista per riconoscere gli altri due, e fu questo il suo errore. Uno di quelli che stavano in piedi afferrò Eddy per il bavero e lo spinse violentemente fuori; Kevin che si trovava sulla soglia, non potè evitarlo, e si scontrò con lui, finendo a terra insieme sulla sabbia. “E questo chi è?” disse uno degli uomini che stavano in piedi. Kevin ancora scosso per la botta ricevuta stentava a rendersi conto di quello che succedeva, ma percepì i corpi degli altri due tipi che furono gettati fuori della baracca nello stesso modo del primo, e finirono sulla sabbia accanto a lui, alzando un fitto pulviscolo che gli annebbiò la vista. Senza difficoltà riconobbe anche gli alti due: erano Trent e Lucky; anche loro frequentavano la stessa scuola. “Sarà il quarto del gruppo…mi ricordo che quando hanno comprato la merce erano in quattro” disse uno degli uomini, e lui e i suoi compagni uscirono al sole. Erano cinque, di circa trent’anni, alti e massicci, e il loro aspetto non lasciava presagire nulla di buono. “Già, e magari voleva svignarsela” disse uno di loro, con un sorriso malvagio stampato sul viso. ”Hey, io non so cosa…” La frase di Kevin, che nel frattempo si era rialzato, fu interrotta da un pugno scagliato con forza contro il suo viso. Kevin si accasciò, si sentì mancare il fiato, e sangue caldo e umido iniziò a scorrergli sul volto, dal setto nasale frantumato. Con gli occhi appannati dal dolore, vide i suoi compagni di scuola che stavano a terra, immobili, e le escoriazioni sui loro visi non lasciavano dubbi sul trattamento che avevano appena ricevuto. “Questo perché volevi fare il furbo. In quanto a voi…”e guardò Eddy e gli altri “Avete tre giorni di tempo per ridarmi quello che mi dovete. Dopo farete i conti con me…tutti e quattro”. E facendo un cenno agli altri uomini, si allontanò verso la strada. “Aspetta Rock” disse Trent, che nel frattempo si era rialzato ”Abbiamo fatto un errore, è vero, ma tu ci conosci, giuro che non lo faremo più…” Ma gli uomini non lo ascoltarono, e si allontanarono senza degnarlo di uno sguardo. Trent ed Lucky si rialzarono, e una fredda rabbia prese il posto della paura sui loro visi “E ora che si fa?” chiese Lucky. “Si cercano i soldi, che altro vuoi fare?” rispose Trent. Kevin, ancora frastornato per il colpo ricevuto, fissava inebetito Trent, e accennò una domanda, ma ciò che gli uscì dalla bocca fu solo un confuso borbottio. Trent si girò verso di lui, lo sguardo furibondo, e per un attimo Kevin pensò che stesse per ricevere un altro colpo. “E questo che vuole? Ti conviene girare al largo, amico”. Evidentemente, aveva pensieri più gravi per la testa che pensare a Kevin. Quest’ultimo si allontanò, e all’improvviso si ricordò che aveva già sentito parlare di questo Rock, e che in giro si diceva che era dedito ad affari sporchi…ed era molto, molto pericoloso.
Kevin, con il sangue che gli scorreva a rivoli rossi lungo la giacca, andò verso casa, con la mente in subbuglio. Quando arrivò, la casa era vuota e silenziosa, e lui non perse tempo ad andare a medicarsi. Il colpo ricevuto gli aveva risvegliato qualcosa dentro il cervello, un’ombra lontana e nascosta che aspettava di uscire allo scoperto. Forse il dolore, il senso d’angoscia - il gusto della morte, si, sicuramente il sentire il proprio corpo agonizzare per un dolore imminente, e il dolore è sempre uguale, è un preavviso della morte- per reazione gli fecero sentire la voglia di vivere. Di provare fino alla fine sensazioni e passioni, calore e dolore, forse sofferenza ma perché si è vivi, non ombre, nient’altro che ombre. Con il cervello che bruciava più del naso rotto, con la mente che si estendeva per raggiungere, abbracciare, inglobare l’oggetto dei suoi sogni, si sedette davanti allo schermo nero del computer, e lo accese con le parole che già si stavano formando nella sua mente. Nel turbine dei pensieri passò di tutto- ti conosco da tanto, l’altro giorno volevo dirti qualcosa d’importante, forse non so come fare, ho paura eppure ti amo, ti amo e voglio te, te, prima che il vortice oscuro della morte, pieno d’ombre ci sovrasti, ci abbracci, e tutto ciò che siamo, sogniamo, sentiamo sparirà per sempre inghiottito?"chissà- nell’oscurità. Le sue mani scorrevano veloci sulla tastiera, e le parole comparivano e scomparivano sullo schermo bianco, ma lui sapeva cosa fare, sapeva come comportarsi, sapeva che tutto non può essere detto in un istante, che la vita è così, che il tempo (ma se ne abbiamo poco, ha senso…) che ci vuole è tanto, eppure era meglio iniziare, oggi o mai più. Chissà se Marion si ricordava della conversazione della mattina, e se per lei era stata tanto importante come per lui. Ma, in un attimo di lucidità, Kevin comprese che il problema era il pensare sempre troppo e non seguire i propri istinti. Ora lui sapeva cosa doveva fare. Le parole riempirono lo schermo:
Ciao Marion, siccome non sono riuscito a dirti certe cose guardandoti negli occhi forse è il caso che lo faccia per scritto, anche se riconosco che una e-mail non è la cosa più elegante da fare. Ma ripensando a quello che mi hai detto ho capito che forse è meglio andare contro la propria timidezza e rischiare di perdere la faccia, piuttosto che perdere sempre tutto. So che forse apparirò ridicolo, ma sapessi la fatica che mi fa scrivere tutto questo. Forse arrivo un po’ tardi, ma è dall’anno scorso che ti penso, avrei voluto dirti qualcosa prima ma non ce ne stato il tempo, ora che forse non so nemmeno quando ci rivedremo volevo solo dirti che mi piaci, vorrei aver l’occasione di dimostrarti la forza dei miei sentimenti. Ora probabilmente penserai che sia andato fuori di testa, che abbia bevuto, ma ti assicuro che ho solo preso coraggio perché il pensiero di non rivederti più mi faceva star male. Non so che altro dirti (e magari tu non hai voglia di leggere altro), solo che spero di rivederti presto.
Ciao
Kevin
Belle parole, pensò, chiare, schiette e al tempo stesso non troppo avventate. Kevin si complimentò con se, poi impugnò il mouse e chiuse il programma. Quando la finestra gli chiese se volesse salvare quello che aveva scritto, premette no.
“Forse dovevano picchiarmi di più” disse tra sé e sé, rendendosi conto che se Rock lo aveva preso di mira era proprio in guai seri.
Hallow, 24 maggio. Misterioso omicidio nella piccola città di Hallow. Il corpo senza vita di un uomo, all’apparenza sui 30 anni, è stato rinvenuto nella pineta di Drown Strand, vicino alla Statale 34. La macabra scoperta è stata fatta alle prime luci dell’alba da un pensionato che era uscito di casa di buon ora per portare a spasso il cane. La vittima recava i segni di un colpo di pallottola alla testa, oltre a varie escoriazioni su mani e braccia. Ignota l’identità del morto, anche se la polizia ritiene che si tratti di un’esecuzione nell’ambito della criminalità organizzata. Maggiori dettagli a pg. 12.
Quando Eddy entrò in cortile, poté sentire la tensione che aleggiava nell’aria. Trent se ne stava in un angolo fumando rabbiosamente, gli occhi bassi e la mente che vagava chissà dove. Lucky era al suo fianco, intento apparentemente a rollare uno spinello, guardato di soppiatto da Hugh, che se non ne fumava uno ogni mezz’ora si sentiva male. A Eddy Hugh non piaceva, e anche se erano cresciuti insieme non riusciva a capire come potesse essere sempre tanto tranquillo, perso nel suo mondo fatto di fumo, preso in giro da tutti, trattato male perfino dai professori. Ma Hugh andava avanti per la sua strada, non si curava che le ragazze non lo guardassero, che la gente lo considerasse fuori di testa, lui aveva il suo mondo ed era solo suo, gli altri erano aldilà di una cortina impenetrabile e che pensassero pure quello che volessero- come lo invidiava per questo. Oggi a lezione Marion aveva sorriso tutto il tempo a Jimmy, il bello della classe, e Eddy aveva colto strascichi di quella conversazione- non credo di potere…e io credo di si…e poi quel posto non mi piace, é troppo affollato…vedrai che ti divertirai…chissà, forse… ti chiamo io, ho sempre gli inviti gratis- sempre sorridendo, e ad Eddy era sembrato che quei sorrisi fossero perfetti, lucenti muri d’avorio che circondavano qualche immaginaria città fantastica, e dietro quelle mura vi erano guardie, mostri, trabocchetti e alla fine del labirinto lei, ad aspettare l’eroe, e lì Eddy avrebbe potuto competere con Jimmy, e lei sarebbe stata sua, sua per sempre, e la conversazione non sarebbe servita, il bel sorriso nemmeno, il vestito elegante, la macchina sportiva, le discoteche… tutto avrebbe perso significato, davanti alla forza del suo amore.
“Siamo nei casini, ragazzi” disse lentamente Trent con tono cupo, aspirando profondamente lo spinello” Rock è incazzato nero, e questa volta ce la fa pagare cara”. “Io non capisco che cavolo voglia” bofonchiò Lucky “Se qualcuno ha ammazzato uno dei suoi non è colpa nostra…che cazzo, mica siamo stati noi!” “A Rock non importa chi sia stato” disse Hugh ricevendo lo spinello tra le mani. I suoi occhi si fermarono sulla canna, e la guardarono come qualcosa di magico, un balsamo miracoloso che serviva a lenire le ferite della giornata; ed Eddy si chiese perché a Hugh bastasse così poco per essere contento. “Semplicemente è… furioso” Hugh aspirò profondamente” Vuole sfogarsi, e noi siamo quelli più a portata di mano”. “E tutto per una cazzata…che cavolo ne abbiamo ricavato?” urlò Lucky. “Piantala di gridare.” Disse Trent “ Siamo nei guai, ma bisogna trovare un modo di uscirne. Vi ricordo che eravate tutti d’accordo con me quando abbiamo deciso di tenerci la roba, quindi siamo tutti sulla stessa barca”. “Una barca che rischia di affondare” disse piano Hugh, evidentemente già sprofondato nel suo mondo di fumo, al sicuro dai danni della vita. Eddy fissò l’amico con sguardo vacuo, ma gli occhi dell’amico che lo fissavano di rimando parlavano d’altri pensieri, come non stesse realmente guardando ciò che era di fronte a lui. Hugh era come sempre riuscito a fuggire alla realtà. Eddy sentì il bisogno di dire qualcosa: “Che si fa?”. La domanda gli parve stupida, ma in quel momento non trovò niente di meglio da dire. Trent diede l’ultima aspirata allo spinello, poi lo gettò a terra e disse: “ Io un’idea ce l’avrei. Parliamoci chiaro, ragazzi: per uscire da questa situazione bisogna restituire a Rock tutti i suoi soldi… il più in fretta possibile.” “E dove li troviamo?” chiese Lucky. Trent rimase pensoso per un istante, poi a voce bassa iniziò ad esporre il suo piano.
Eddy fissò l’amico, sicuro che ciò che Trent avrebbe detto sarebbe servito a tirarli fuori dai guai, perché Trent era Trent e solo lui poteva salvarli. Ma con la coda dell’occhio vide Marion e Jimmy che uscivano nel cortile insieme, ridendo, con gli sguardi persi l’uno nell’altra, ed i loro sorrisi… dio, come potevano sorride così? Marion fissava assorta Jimmy, ed Eddy si disse in un attimo d’attonita consapevolezza che lui non sarebbe mai stato guardato così, che lei aveva perso il proprio sguardo nel sorriso di lui, che quei due si sarebbero presto legati, e sarebbe stato per sempre, e a lui non sarebbe rimasto altro da fare che seppellire i suoi sentimenti sotto un freddo strato di terra e dimenticarsi di lei, perché lei ormai era di un altro, perché quelle parole che spesso aveva sentito nei suoi sogni- Ti Amo- non sarebbero mai state per lui. Eddy avrebbe voluto gridare, correre verso di lei e dirle quello che erano anni che avrebbe voluto dirle, ma il suo sguardo cadde sopra l’orologio di Jimmy, d’oro massiccio, e Eddy si ricordò della macchina sportiva, dei vestiti eleganti, degli inviti per il Karma che Jimmy aveva sempre con sé- e capì che lui non era niente in confronto a Jimmy, un povero sfigato senza soldi né fascino, che non era stato neppure capace di rivolgerle la parola, e che tutto ciò che lui aveva erano…erano le parole, i sogni, le emozioni nascosti dentro di lui, ma con queste cose non ci si comprano i vestiti, non si hanno macchine veloci-non si seducono le ragazze. Eddy vide ammutolito quei due che passavano veloci e fugaci nel cortile, lo sguardo nello sguardo, le risa che riempivano l’aria, e rimase immobile senza saper che fare, sentendo un senso di vuoto eterno che stava crescendo lentamente dentro di lui, un senso di oblio che assomigliava molto alla morte… la morte delle speranze, dei sogni, dell’Amore. E adesso che il cortile era deserto, che la figura rilucente di lei era passata nell’aria come una visione d’estasi, Eddy si sorprese a fissare il nulla davanti a sé, simile a quello che sentiva dentro. E dall’altro lato del cortile, figura fantasmagorica che prima non aveva notato, un ragazzo teneva fissi i suoi occhi nei suoi. Kevin, lo sguardo vuoto, il viso pallido, lo sgomento stampato sul viso come chi abbia appena visto qualcosa di terribile, lo fissava assorto, forse senza nemmeno vederlo…e Eddy si disse che il senso d’angoscia dentro gli occhi di Kevin era molto simile a quello che traspariva dai suoi.
“Allora, siete d’accordo?” Trent aveva appena finito di parlare, e da capo qual era voleva l’approvazione dei suoi uomini al piano. Lucky era raggiante, il suo volto aveva ripreso vita, ed il suo “Si, sono con te” aveva il tono di chi aveva appena visto la via di fuga da una situazione disperata. Hugh, la testa reclinata e gli occhi chiusi, bofonchiò qualcosa come cenno d’approvazione. Eddy guardò un istante Trent, poi disse che “si, mi sembra un gran piano”. Tornò a voltarsi verso Kevin, per capire se quella sensazione di somiglianza fra loro due fosse reale; ma Kevin se ne era andato.
Marion si incontrò con i suoi amici al solito posto di sempre. La piazza centrale del paese, con i suoi bar all’aria aperta, il palazzo del municipio e le sue aiuole ben ordinate, dava un’idea di ordine e pulizia. A Marion piaceva passare i pomeriggi qui, come aveva sempre fatto da quando era potuta uscire da sola per la prima volta, senza il controllo della famiglia. Quando aveva 14 anni, le sembrava che questa piazza fosse il centro del suo mondo, il simbolo tangibile che era uscita per sempre dalla fanciullezza ed era diventata adulta. Questa parola, a 14 anni, le dava un brivido, e la sua mente automaticamente volava a cose lontane e appena accennate che le parevano fossero la da venire. Poi era venuto il motorino, le uscite del sabato sera in discoteca, il suo primo ragazzo, la patente, le gioie ed i dolori, e quelle pareti dorate di quella magica piazza si erano frantumate, e il mondo si era allargato con i suoi confini più larghi ma tenebrosi. Ora, a 19 anni, la piazza era solo un punto di ritrovo per incontrarsi con gli amici, e quelle sensazioni da ragazzini erano scordate negli abissi del tempo. Ora Marion aveva scoperto che essere donna non volesse dire essere felice, eppure era contenta di se, perché attraverso il dolore, gli sbagli, le delusioni era diventata più forte e matura; ora sapeva come gestire le situazioni più complesse. E l’offerta di Jimmy entrava a pieno titolo nel novero delle occasioni delicate.
A Jane, la sua amica di sempre, disse francamente quello che pensava: “ Carino è carino, è divertente, e poi… mi attrae. È uno stronzo, lo so, però… per uscirci una sera e divertirsi un po' non è male…”. “Fossi in te io accetterei.” Jane era una ragazza diretta, schietta nelle sue opinioni. Forse non era molto carina, e dentro di se questa cosa le pesava, ma aveva imparato che ostentando sicurezza si riescono a nascondere i propri difetti. Anche lei era, in fin dei conti, soddisfatta di se, pur sapendo di non essere perfetta. ”Da quando ti sei mollata con il tuo ex… quanto è passato? 2 mesi? Non hai ancora avuto nessuno. Non è bello, sai?”. “Veramente c’è stata quella festa a casa di Irwin, se non ricordo male, e un certo… James, mi pare, vero? “ Quick, il terzo componente fisso del gruppo, parlava sempre con voce allegra e vivace. Il suo aspetto era singolare, da giullare dei tempi moderni, con pantaloni larghi, occhiali colorati, il pizzetto di un rosso acceso, e il sorriso eternamente stampato sul volto. Quick era la parte allegra del gruppo, colui che quando per problemi vari Marion o Jane erano giù, sapeva ascoltarle, scherzare con loro, tirarle su di morale. Quando Marion si era lasciata, dopo una storia di quasi 1 anno, Quick era corso da lei alle due del mattino, e insieme, sulla la spiaggia deserta, avevano parlato fino al mattino, e quando i caldi raggi del sole avevano iniziato a lambire la sabbia silenziosa, le lacrime che incontrarono sulle gote di Marion non erano di dolore, ma di calma accettazione e di consapevolezza che, attraverso la tristezza, avrebbe di nuovo visto la luce, che la vita continuava, che il domani- con o senza di LUI al suo fianco- avrebbe potuto essere radioso, come quel sole che dopo una notte di tenebre era risorto per portare luce e calore in ogni parte del mondo. “E ricorda che il sole sorgerà sempre, sempre”. Con queste parole, e con un sorriso che diceva “Ti comprendo, soffro con te, ma so che sei forte e saprai andare avanti” Quick aveva chiuso la notte di sofferenza con Marion sulla spiaggia. Quick era sempre disponibile, allegro, radioso- un amico vero, uno di quelli che si vorrebbe sempre avere al proprio fianco- uno che riesce a scacciare la tristezza con una semplice parola, a ravvivare una serata morta con un’invenzione, a non curarsi di essere ridicolo per far ridere gli altri. Egli era simpatico, vivace, altruista, garbato di modi e nel parlare…ma era anche un uomo inesistente.
Quick era un uomo insistente, perso nella sua immagine allegra e spensierata, con il suo sorriso sempre aperto ed i colori sgargianti dei suoi vestiti. Lui era quello che dava consigli a tutti, quello che sosteneva gli altri nei momenti di bisogno, quello sempre pronto a scherzare, a ridere, a divertirsi in compagnia…ma dei suoi sogni, importava a qualcuno? Di quello che pensasse nelle notti fredde quando, immobile nel letto, fissava il soffitto, oppure quando tornava a casa la sera, solo, con le risate degli amici ancora nelle orecchie, con le loro storie d’amore che spesso era proprio lui che aiutava a nascere, quando era solo con se stesso e sentiva una sorda angoscia crescergli dentro- a chi importava di questo? Per tutti lui era il ragazzo allegro, l’amicone, il compagno delle notti di baldoria- a volte, quando era solo, pensava che se avesse detto a qualcuno che anche lui aveva paura, che si sentiva solo, che il futuro lo spaventava, questi avrebbe riso, gli avrebbe dato una pacca sulla spalla e gli avrebbe detto… che cosa? Niente, non poteva essere lui quello che soffriva, lui era sempre allegro, e gli altri nemmeno potevano concepire l’angoscia che provava quando i tuoi sogni si tramutano in incubi. Quando sul suo scooter fricchettone andava per le vie della città, insieme a Marion e Jane, si sentiva come se fosse solo un’immagine televisiva, una creatura artificiale creata e tenuta insieme dalle risate degli altri. Dentro non esisteva, non aveva profondità, le sue sofferenze non erano viste, egli esisteva solo come immagine dei pensieri degli altri, e a volte sentiva che la sua forma corporea stava insieme perché gli altri lo volevano, e se i suoi amici lo avessero abbandonato, avessero iniziato a dire” Cosa succede a Quick? Non è il ragazzo che conosciamo, forse è offeso con noi, meglio lasciarlo perdere per un po” egli, rimasto solo, sarebbe sparito nel nulla, la sua immagine che era tutto ciò che aveva sarebbe diventata via via più trasparente, finchè di lui non sarebbe rimasto nulla, chissà nemmeno il ricordo. Ed allora Quick andava diritto per la via che aveva imboccato, a sorridere a tutti, e i suoi sogni, le sue paure, il mondo che sentiva avere dentro di sé- un mondo fatto di visioni, di immagini soffuse, di sogni, speranze, paure, amori e corpi femminili- rimaneva nascosto in qualche remoto angolo della sua mente, dissolvendosi ogni giorno di più, lasciando solo un vuoto simulacro di se, un simulacro tenuto insieme dagli sguardi degli altri, dalle loro pacche sulle spalle, dai loro “Dai, facci divertire”.
“ Quanto sei scemo” disse Marion, con un sorriso tra l’offeso e il divertito ”Ti ho già detto che quella sera ero un po' brilla…”. “Però ti è piaciuto, no?” chiese Jane. “Si, non posso negarlo…” e il trio scoppio a ridere. Quick si portò al centro della scena, e si gettò in uno dei suoi memorabili discorsi che facevano ridere a crepapelle chiunque lo ascoltasse. Marion e Jane si godettero lo spettacolo, dimenticandosi per un istante i loro problemi, felici di avere al loro fianco un amico così.
La notte in cui Frank, l’uomo di Rock trovato morto nella pineta di Drown Strand il 24 maggio, fu ucciso, ebbe strane visioni. Con il cuore che batteva all’impazzata si gettò dentro il canale, sperando di far perdere le proprie tracce. La notte era gelida, e una luna malata lo guardava indifferente dall’alto, attraverso una fitta cortina di nubi che velavano le stelle. Per un attimo Frank si fermò a fissare il cielo, e si chiese se nel cielo vi fossero veramente delle nubi o fossero i suoi occhi appannati a fargli vedere questo. La ferita all’addome era profonda, e il sangue sgorgava abbondantemente sui suoi vestiti. Il gelo gli stava penetrando dentro, un freddo torpore che gli dava un brivido di paura come mai aveva provato prima in vita sua. Con le gambe barcollanti provò a muoversi, ma la melma che riempiva il canale gli impacciava i movimenti. Frank conosceva quella zona, e sapeva che se fosse riuscito ad uscire dal canale si sarebbe ritrovato nella buia pineta di Hallow, e lì forse sarebbe riuscito a far perdere le tracce ai suoi inseguitori. Il suo udito percepì un rumore lontano, poi passi affrettati, ordini rabbiosi, l’ansimare violento di cacciatori che hanno fiutato la preda e si apprestano a finirla. Cogliendo tutte le sue forze, Frank s’inerpicò sull’argine del canale, ansante di fatica, percependo il sangue che andava via dal suo corpo per nutrire la fredda terra. La cima dell’argine era alla sua portata, ma quello sforzo finale gli parve insostenibile. Balzò in avanti, ma perse l’equilibrio e andò a sbattere pesantemente a terra, con dolori lancinanti che gli trafiggevano il torace, la dove il coltello aveva colpito con determinazione omicida. Le grida degli inseguitori si alzarono al cielo, segno che era stato individuato.
Frank sentiva che le forze lo stavano abbandonando, che il suo corpo sfinito si rifiutava ormai di lottare, ma stranamente non provava paura, ma una strana sensazione, uno strano stato che non sapeva definire chiaramente. Con la faccia ricoperta di melma si alzò, e con le palpebre socchiuse fissò la vuota radura davanti a sé, cercando di mettere a fuoco le confuse immagini che gli baluginavano davanti agli occhi. Sulle prime non capì bene cosa stesse succedendo. I suoi occhi appesantiti dal fango e dalla fatica percepirono una forte luce, un bagliore accecante che non avrebbe dovuto trovarsi lì, nella desolata pineta sferzata dal freddo vento. Poi intuì del movimento, un calore intenso, grida che provenivano da decine di bocche che erano lì davanti a lui… forse c’era una festa nel bosco, come quelle a cui partecipava da ragazzo, con giostre multicolori e famiglie allegre che si godono la magia di una notte all’aria aperta. Con una mano incerta si pulì la faccia, e strizzò gli occhi per focalizzare l’attenzione su ciò che vi era davanti a lui. Le immagini arrivarono inaspettate, lasciandolo senza fiato. Era strano, si disse, ma ai bordi dello spiazzo, dove dovevano essere gli alti pini, si ergeva un’alta palizzata alta almeno 3 metri, illuminata dal fuoco delle torce. La scena che si stava svolgendo davanti a lui era incredibile. Sopra la palizzata, da quelli che dovevano essere degli spalti abbastanza larghi, guardie armate di lance e spade, rinchiuse in pesanti armature lottavano selvaggiamente con gli assalitori che si gettavano rabbiosi contro le mura di quella che all’apparenza doveva essere una fortezza. La lotta era furibonda, e i corpi si stavano ammassando davanti al recinto. Frank ammirò l’ordine e la disciplina dei difensori, che in ranghi compatti, dall’alto della mura, tenevano a bada l’orda degli assalitori, rimpiazzando con incredibile efficienza i caduti; d’altronde le armature ordinate e lucenti facevano capire che coloro che abitavano dentro quel forte dovevano essere persone civilizzate.
Gli assalitori invece lo lasciavano perplesso. La maggior parte di loro indossavano solo un leggero perizoma, ed avevano il petto completamente nudo. Le armi che usavano erano grosse asce bipenni, ed alcuni di loro roteavano grosse mazze ferrate che lanciavano con rabbia contro la porta del forte; nessuno di loro aveva elmi o armature varie. Ma Frank percepì che la stranezza di quei guerrieri fosse un’altra, forse i riflessi rossi che pulsavano negli occhi di quei selvaggi seminudi, troppo intensi per essere semplicemente un riflesso delle torce. Dai loro volti, infatti, emanava una forte luce rossa, più forte di quella delle fiamme, che si riversava sui loro toraci nudi illuminandone i lineamenti. A Frank quei riflessi accecanti sembrarono assurdi, non riuscendo a capirne la provenienza. Poi, percepì qualcosa alle sue spalle. Con la testa che gli pulsava, e con un enorme sforzo di volontà, girò lentamente a testa e, sullo sfondo del nero cielo privo di stelle, li vide. Erano in tre, all’apparenza alti quasi 2 metri, e tenevano le mani incrociate sul petto. Indossavano lunghe tuniche che li coprivano completamente, ed i loro volti erano nascosti sotto un cappuccio. Sulle tuniche vi erano segni strani, forme e linee che si incrociavano per disegnare le parole di un linguaggio proibito e dimenticato dagli uomini; da essi emanava un’aria di incredibile, arcana malignità. Frank fissò assorto quelle forme, e si ricordò di qualcosa di estremamente importante, qualcosa che rimaneva celato in un angolo della sua mente e che si rifiutava di venire alla coscienza. Frank ripensò a quella notte, all’incontro al bar di Charro con Jamie, alla birra fresca che si era bevuto senza voglia, perché vi era qualcosa che lo preoccupava…ma che cosa? Vi era una parola che cercava di prendere forma nella sua mente, mentre fissava quelle figure incredibili- una frase che diceva: “io sto per…”- per cosa? Era quella parola che rifiutava di concretizzarsi che lo spaventava, eppure al tempo stesso sapeva che era anche la chiave che gli avrebbe permesso di interpretare quella situazione incredibile, con gli assalitori, il forte, le figure alte e snelle coperte dalle tuniche…
Frank tornò a fissare il forte, e con un filo di emozione vide che i ranghi degli assalitori si erano notevolmente ridotti. Evidentemente l’ordine e la costanza di quei soldati ben addestrati ed armati stavano avendo la meglio degli assalti disordinati di quei selvaggi. Frank ne contò sì e no una decina di ancora in piedi, ma ben presto anche quest’ultimi caddero al suolo. Dagli spalti, grida di trionfo fecero capire che la lotta era finita. Nella spianata davanti al forte vi erano almeno 50 selvaggi stesi al suolo, inermi nel freddo abbraccio della…di cosa? Frank si disse che vi era una parola ben definita per descrivere lo stato di quei selvaggi: ma quale fosse questa parola, Frank non era in grado di ricordare. Poi accadde. Le tre figure si mossero lentamente verso il forte, sorpassando Frank e mettendosi davanti a lui. Dagli spalti i difensori li fissavano assorti, con sguardi preoccupati. Le grida di gioia erano cessate, e al loro posto ordini lanciati ad alta voce fecero sì che i soldati riprendessero il loro posto. Frank non capiva come fosse possibile che tre persone, probabilmente i capi di quella tribù, potessero da sole fare ciò di cui non era stata capace un’orda di 50 scalmanati armati fino ai denti. Con movimenti lenti e calcolati, e con una perfetta sincronizzazione, le tre figure si portarono all’unisono le mani ai cappucci, e li abbassarono. Nonostante fossero di spalle, Frank capì che quei lineamenti non potevano essere umani, che le proporzioni di quelle teste non appartenevano a questo mondo, che le strane protuberanze che si allargavano da quei capi dovevano appartenere a demoni, non a uomini; e ringraziò il cielo che gli stessero dando le spalle, perché sapeva che non sarebbe stato in grado di reggere lo sguardo di quei volti demoniaci. Dal forte si alzarono grida, grida d’orrore e sgomento, e un nugolo di frecce furono scagliate verso i tre mostri, ma invano: le frecce si bloccavano a mezz’aria, per incendiarsi e finire carbonizzate. Poi, le tre creature alzarono le mani al cielo, e iniziarono a intonare una strana litania, lenta e monotona, le cui parole erano inintelligibili a orecchie umane. Subito, dai barbari stesi a terra sembrò levarsi un suono simile. Con lentezza esasperante i selvaggi iniziarono ad alzarsi, si rimisero in piedi vacillando e tornarono a impugnare le loro armi…e questa volta Frank vide che sì, i loro occhi emanavano bagliori rossi. I tre negromanti abbassarono le braccia, poi tornarono nell’ombra, con i copricapo nuovamente abbassati sui volti. Per un attimo vi fu una calma irreale, poi l’assalto iniziò di nuovo.
I difensori erano stremati dalla fatica, e terrorizzati dall’orrore a cui avevano appena assistito; gli assalitori aveva l’aria di aver moltiplicato le forze, e i loro colpi contro le palizzate facevano tremare la terra. Frank era immobile ad osservare la scena, chiedendosi perché si sentisse così triste per gli abitanti del forte, come se sapesse che qualcosa di orribile stesse per accadere a quelle persone…come se qualcosa di terribile stesse per accadere a lui. Nella sua mente si formò uno strano pensiero: ”Sto vedendo tutto questo, eppure ero convinto che quando sarebbe arrivato questo momento avrei rivisto tutta la mia vita come un film…almeno così mi hanno sempre raccontato. Pensavo che fosse una balla, eppure deve essere bello. Questo…questo che sto vedendo è assurdo, privo di senso…e poi perché ho detto questo momento? Cos’è questo momento? Che sta per succedermi? C’è una parola che rifiuta di venirmi alla mente, eppure sento che servirebbe a spiegare tutto. Deve essere bello rivedere la propria vita, che scorre tutta davanti ai tuoi occhi. Vorrei rivedermi quando ero bambino, a giocare per strada con gli altri- con Mick, Tom e Rick, che gruppo!- oppure quella volta in discoteca, quando ho incontrato Mary, e siamo finiti a casa sua, e chissà perché poi me ne sono andato, perché ho permesso che tra noi finisse tutto. Ora vorrei essere rimasto con lei, forse adesso non sarei qui, e magari lei saprebbe darmi una risposta e dirmi che sta per succedere, perché io…io ho paura, non ho mai avuto paura in vita mia eppure adesso provo un terrore come non ho mai sentito, e non capisco se è per me e per le persone dentro quella fortezza, che tra poco saranno…non lo so, ma so che sono come me, che presto conosceranno l’orrore vero, e da questo orrore non vi sarà fuga, non vi sarà ritorno, saremmo segnati per sempre da questa esperienza, e chissà se riusciremmo a guardare di nuovo il sole come prima, con occhi liberi e puri, o la notte buia e paurosa sarà la nostra dimora, per sempre, per sempre…”. Con queste parole che gli echeggiavano in mente, Frank osservava la battaglia e vedeva i difensori in difficoltà, le mura che iniziavano a vacillare, e dietro di lui, fievoli eppure ben distinte, le risate sommesse, malvagie di quelle tre figure, la vera causa di tutto quell’orrore. Frank desiderò potersi alzare, affrontare quei mostri, aiutare gli uomini del forte, perché sapeva che sconfitti i tre maghi anche la magia che animava i selvaggi sarebbe cessata. Provò un intenso desiderio di lottare, di alzarsi e affrontare a viso aperto i suoi nemici; sentiva di voler aiutare gli uomini del forte, si disse che avrebbe rischiato tutto per loro anche…anche la vita, sarebbe morto pur di distruggere quei mostri…sarebbe morto.
La notte era silenziosa, la luna indifferente, e le stelle, immobili nell’eterna volta celeste, non diedero altro che uno sguardo annoiato agli uomini che correvano su per il canale. Non videro né quando questi arrivarono alla pineta, né quando circondarono l’uomo inginocchiato a terra, né quando gli puntarono la pistola alla testa e spararono.
Nemmeno Kevin avrebbe saputo spiegare perché fosse tornato alla baracca sulla spiaggia. Eppure Rock era stato chiaro, e Rock non era un tipo da prendere sottogamba. Però Kevin aveva sentito il bisogno di tornare li, dove il giorno prima aveva rischiato di essere pestato a sangue, per trovare qualcosa che sentiva di aver perso. Quel qualcosa non aveva un nome definito, ma Kevin l’avrebbe definita come…speranza, e il ricordo di quegli attimi sulla spiaggia, agonizzante di dolore, sporco di sangue, ma con dentro di sé la decisione, per la prima volta in vita sua, di scrivere a Marion, di prendere in mano la situazione, di dirle che l’amava, che l’aveva sempre amata… lo faceva star bene. Sulla spiaggia voleva ritrovare quella decisione, quella fermezza che per un istante aveva inebriato il suo corpo, lo aveva fatto sentire un uomo. Poi l’insicurezza, la paura, la maledetta timidezza che lo tormentava lo avevano fatto recedere dai suoi propositi, e Marion la sera dopo sarebbe uscita con Jimmy, e lui non avrebbe potuto fare più nulla, sarebbe stata persa per sempre, un’altra volta, come quando si era messa con Wade e lui aveva sofferto in silenzio. A quel tempo, circa un’anno prima, Kevin aveva deciso che si sarebbe dimenticato di Marion per sempre, e aveva iniziato a fare di tutto per non incontrarla. Aveva addirittura pensato di mollare la scuola, di partire zaino in spalla per scoprire il mondo, di vivere libero senza legami, senza limiti…sempre sogni, sempre i soliti, maledetti sogni. Poi Marion si era mollata e Kevin aveva benedetto la decisione di non partire, perché finalmente ora lei poteva essere sua, e lui non avrebbe ripetuto gli errori di un’anno prima… ed erano già passati due mesi, e niente era cambiato. Maledicendosi per il suo carattere sperò di incontrare di nuovo Rock, che questa volta gli desse una vera lezione, perché questa volta il dolore fisico sarebbe stato inferiore in confronto al dolore che sentiva all’interno, al vuoto dell’anima che gridava per chiedere aiuto.
La baracca era deserta, e Kevin si trovò a fissare l’interno della costruzione: un paio di sedie mezze distrutte, reti per pescatori consunte dal tempo, barili pieni di cianfrusaglie arrugginite. Per anni la baracca era stata la base di Trent e dei suoi compagni, il loro punto segreto di ritrovo, e a tutti era proibito avvicinarsi. Si parlava di un paio d’anni prima, quando ancora andavano alle scuole medie e tutti i pomeriggi si ritrovavano al mare per giocare a pallone. Trent era sempre stato un bulletto, e i suoi amici non erano da meglio, sopratutto Lucky, con il suo fisico da palestrato ed i suoi modi violenti. Lì sulla spiaggia si divertivano a prendersela con tutti, a picchiare i più deboli; in quella baracca avevano fumato la loro prima sigaretta, rollato il primo spinello, avuto la prima ragazza. Insieme a Trent e Lucky, che erano quelli veramente pericolosi, erano passati tanti tipi, alcuni spariti con gli anni e finiti chissà dove, altri cresciuti e andati per la loro strada fatta di normalità e routine. Del gruppo di balordi di Trent erano rimasti in 4, anche se Hugh ed Eddy non è che fossero molto partecipi, troppo occupati a fumare e a seguire senza discutere gli ordini del capo. Però ciò che Trent e il suo gruppo non avevano capito era che gli anni erano passati, che le cose erano cambiate, che ormai nessuno giocava più a calcio sulla spiaggia, che le ragazzate?" rubare le sigarette, picchiare qualcuno solo per divertimento, importunare le ragazze, sentendosi padroni del mondo- non erano più tali, che erano arrivati nuovi capi… e la baracca sulla spiaggia sarebbe rimasta per sempre deserta, perché Trent e soci avevano paura che lì Rock li avrebbe ritrovati facilmente, e questa volta non ci sarebbe stato perdono. Un rumore all’esterno della baracca fece sobbalzare Kevin. Per un istante, si maledì della sua idea, ed ebbe paura che fosse Rock o uno dei suoi uomini. Si guardò intorno, cercando una via d’uscita, ma l’unica finestra era sbarrata da pesanti assi di legno saldamente inchiodate. Con il cuore che gli batteva, Kevin sperò che chiunque ci fosse sulla spiaggia non sarebbe entrato nella baracca. Ma quando la porta iniziò lentamente ad aprirsi, provò un senso di intensa paura, diversa da quella che aveva provato fino ad allora. Prima le sue paure erano qualcosa di mentale, immagini irrazionali che gli balenavano nella testa e gli facevano male al cuore; ora, la paura che lo attanagliava era il terrore irrazionale del dolore fisico, l’allarme che il corpo lancia quando sente la propria incolumità in pericolo. Come per proteggersi, si portò in un angolo della costruzione, come se così potesse diventare invisibile. Poi, un’ombra oscurò il sole, e qualcuno si fermò sulla soglia.
Sulla porta davanti a lui si stagliava la figura di un vecchio, di circa 80 anni, vestito in modo stranamente arcaico, qualcosa anni ‘40 o giù di li, con abiti che Kevin aveva visto solo nelle immagini dei vecchi documentari che gli facevano vedere a scuola. Dietro il vecchio, due cani di grossa stazza, uno bianco e l’altro grigio, giocavano a rincorrersi sulla battigia. Kevin fissò sorpreso il vecchio, e questi di rimando lo guardò un istante, con lo sguardo tranquillo. “Non pensavo vi fosse qualcuno” disse con voce calma e incredibilmente cadenzata il vecchio, ed iniziò ad avanzare all’interno della baracca. Kevin non sapeva cosa dire, e tutto ciò che gli uscì dalla bocca fu un “Buonasera” impercettibile, che si chiese se il vecchio avesse udito. “Sai, ormai sono pochi quelli che vengono sulla spiaggia. Non mi aspettavo di trovare un giovane…pensavo che preferiste stare al bar, oppure in discoteca”. “No, di giorno sono chiuse le discoteche” farfugliò Kevin, sentendosi imbarazzato. “Eh già, è vero” fu la risposta che ottenne. Il vecchio prese una sedia decrepita, la portò fuori e si sedette, fissando il mare assorto nei proprio pensieri. Kevin era imbarazzato, non sapendo che fare. Stava per andarsene, quando l’anziano signore iniziò a parlare: “Un tempo era diverso, sai. Quando ero giovane, un bel pó d’anni fa…credo ne siano passati più di 50… tutte le sere si veniva a ballare sulla spiaggia. Allora non c’erano tutti questi locali che ci sono oggi, e noi giovani per divertirci ci si doveva organizzare. Le feste sulla spiaggia erano una ricorrenza fissa, a volte ve ne era una ogni sera, soprattutto d’estate, quando le notti erano tiepide. Tutti noi lavoravamo in zona, perché allora non c’erano i mezzi di trasporto di oggi. Si finiva tardi, ma dopo cena si aveva sempre voglia di stare insieme, di divertirsi, di scordarsi per poche ore le fatiche del giorno. Ed allora si comprava qualcosa da mangiare, si chiedeva ai propri nonni una bottiglia di vino, e si correva qui, sulla spiaggia, insieme con gli altri giovani, e ogni notte- credimi quando dico ogni notte- c’era qualcuno che già aveva acceso i falò, e i musicisti erano arrivati, e ci si metteva là…vedi? dove oggi hanno costruito quel brutto pontile, ma allora c’era solo un piccolo attracco per le barche, e la notte esplodeva di suoni, di grida, di risate come solo i giovani sanno fare, quando anche i pesi della giornata, le fatiche che si provavano nei cantieri, nelle fabbriche, sulle impalcature bruciate dal sole sembravano leggere, cose da niente, perché si era giovani, nel pieno della vita, e il tuo corpo vigoroso ti spingeva aventi, senza paura, e alla fine della notte, quando il sole iniziava a sorgere e i falò andavano piano piano spengendosi, tutto quello che noi sognavamo…ascolta, tutto quello che noi bisognava era di avere una donna al nostro fianco, di stringerla fra le braccia e sussurrarle all’orecchio: ti amo, ora e sempre- e allora la fatica sarebbe scomparsa, un dolce tepore avrebbe invaso i nostri corpi, e vicino a loro le nostre esistenze avrebbero avuto un senso, e attraverso i nostri figli noi saremmo diventati immortali. E così ogni notte si veniva qua, sulla spiaggia, e si danzava fino al sorgere del sole, e si guardavano con occhi ardenti le nostre ragazze, e loro fissavano noi, e in questo scambio di sguardi si cercava di dare un senso alla nostra esistenza, e la musica riempiva l’aria, e si udivano solo risate, risate di gioia perché si sapeva- e questo era l’importante- che se quella notte si sarebbe tornati a casa soli, ebbri di vino e di sogni, la notte dopo sarebbe stata diversa, e questa volta un sorriso femminile ci avrebbe illuminati, e danzando con lei fino all’alba si sarebbe trovato il nostro posto in questo mondo.“
Il vecchio fece una pausa, e Kevin percepì nei suoi occhi strani riflessi, forse ricordi di quegli antichi falò che avevano illuminato la giovinezza di quello strano individuo. “E poi c’era il poeta. Lui era diverso dagli altri, chiuso nel suo mondo di visioni e parole, incapace di lavorare, di reggere una zappa, di gettare le reti. Viveva solo con la vecchia madre, una donna povera e cieca, che non poteva alzarsi dal letto. La sua casa era cadente, il camino non tirava, e il loro campo era sterile, perché nessuno lo curava. Per la gente del luogo il poeta era un’incapace, un povero fallito…però lui aveva le sue parole, e credimi…aveva più di chiunque altro. Quando la sera andava alle feste sulla spiaggia- e non aveva vestiti eleganti, né un cappello all’ultima moda, perché era povero- lui non danzava, ma si sedeva in riva al mare, e iniziava a riempire i fogli consunti di un vecchio block-notes con un’interminabile serie di parole, e mentre la gente ballava e rideva lui rimaneva là, solo di fronde al mare silenzioso, e scriveva parole su parole. Ma chiunque si avvicinava a lui, e leggeva quello che aveva scritto, per quella notte smetteva di ballare, e rimaneva seduto di fronte al mare silenzioso in compagnia del poeta. Le sue poesie parlavano di cose lontane e appena accennate, ombre che nessuno ha mai visto con i propri occhi ma che tutti abbiamo immaginato nella nostra mente“. Il vecchio fece una pausa, come se stesse ricordando qualcosa. ”Tutti sapevano che era innamorato di Caroline, la figlia del fornaio, ma non aveva mai osato rivolgerla la parola, perché sapeva di essere povero, e senza un vestito per la festa, e come poteva sperare che lei lo guardasse? Un giorno- mi sembra che fosse il primo giorno di primavera di tanti anni fa, e un lungo e doloroso inverno aveva appena lasciato spazio alle speranza di una nuova radiosa stagione- lui le inviò una poesia d’amore…nient’altro, ne fiori, ne rose rosse o gioielli lucenti, solo una semplice poesia scritta su una pagina sgualcita strappata dal suo block-notes. Quella sera, quando la luna era alta e splendente nel cielo, e i falò crepitavano vivaci, e le musiche riempivano l’aria, lei era li, bellissima nel suo vestito rosa, magica con i suoi capelli biondi sciolti al vento notturno, e i suoi occhi azzurri guardavano solo lui, e alle note di una canzone che parlava d’amore loro si abbracciarono e ballarono stretti sotto le stelle che quella notte- forse ricordo male- brillavano più del solito. Quella notte per lui fu magica. Lui e Caroline ballarono finché i falò non si consumarono, finché la musica cessò perché i musicisti erano stremati, e mentre la gente iniziava ad abbandonare la spiaggia e le ultime risate aleggiavano ancora nell’aria, lei avvicino le sue labbra alle sue e lo baciò”.
Il vecchio accennò un sorriso, come se avesse trovato un ricordo che gli dava particolarmente piacere; ma subito dopo un’ombra oscurò il suo viso “Quando i genitori di Caroline vennero e l’accompagnarono a casa, come si faceva per le ragazze per bene, il poeta rimase solo sulla spiaggia deserta, vicino ai falò che andavano lentamente spengendosi, a pensare al suo amore, al futuro che gli attendeva, alla vita che avevano davanti insieme, ai figli che chissà avrebbero reso fertile la loro unione…” Kevin iniziò a sentire un senso di fastidio, anche se non sapeva a cosa imputarlo. Forse al sole che stava lentamente calando, facendo proliferare sulla sabbia umida strane ombre che ricordavano creature fantastiche; forse alla voce fredda e monotona del vecchio, che si mischiava con lo sciabordio delle onde. “ Il poeta mi disse che si addormentò, e nei suoi sogni vi era lei; i due stavano ballando, stringendosi dolcemente, occhi negli occhi, e il vestito bianco di lei era la cosa più bella che avesse mai visto. I due danzavano in un immenso giardino circondato da alti alberi secolari, e il cielo era azzurro, senza nemmeno una nube a turbare quella perfezione celeste, e da dietro gli alberi si udivano scoppi di risa e parole appena sussurrate, e il poeta si disse che nascosti tra le ombre degli alberi dovessero esserci altre coppie che come lui e Caroline si godevano la loro felicità. Poi una luce accecante esplose da dietro le fronde, ed invase tutto, e il poeta fu costretto a proteggersi gli occhi, perché quella luce sembrava volergli bruciare le cornee, e quando il fastidio divenne insopportabile il poeta fu costretto a svegliarsi, e si rese conto che quella luce non proveniva dal sogno, ma era reale, e proveniva dalla spiaggia dove si era assopito. Era un bagliore strano, fortissimo, innaturalmente doloroso; proveniva dal mare, e il poeta si disse che qualche nave si dovesse essere avvicinata troppo alla costa. Incapace di sopportare il bruciore dei propri occhi si getto riverso sulla sabbia, e aspettò che chiunque gli stesse gettando in faccia quella luce così forte si decidesse a finirla. Per alcuni istanti lo sfolgorio continuò a investirlo, poi fortunatamente tornò l’oscurità. Desideroso di sapere che cosa avesse causato quello strano bagliore, si alzò dalla fredda arena e fissò il mare. E loro erano lì. Quelle creature fantastiche, dalle forme incredibili, erano lì davanti ai suoi occhi. Uscirono dall’acqua, silenziose sotto la luna. I loro corpi erano fantastici, incroci incomprensibili di esseri marini e terrestri che aveva visto solo nei suoi sogni. Alcune avevano arti multiformi, che si estendevano da corpi a forma di bulbo, su cui si aprivano fessure simili a occhi; altre avevano un corpo allungato, incredibilmente sottile, e sulla sommità teste a forma di fiore, da cui dipartivano tentacoli che sferzavano l'aria. Vi erano creature che ricordavano insetti, ma univano in se anche caratteristiche di pesce, e addirittura d'uccelli, con strane ali multicolore che strusciavano inermi il suolo. Una in particolare colpì la sua attenzione: aveva il corpo a forma di stella marina, gli occhi su ogni punta, e camminava librata nell'aria, producendo uno strano bagliore. Le creature si disposero in cerchio sulla spiaggia silenziosa, poi una di loro, simile a un grosso granchio con decine di tentacoli che si dipartivano dal carapace, e al posto delle chele due braccia sottili e irte di spine, che terminavano in una paio di zampe artigliate, si fece avanti. Iniziò a tracciare strani segni sulla spiaggia, e il poeta udì un mormorio sommesso che pareva alzarsi verso il cielo coperto dalle nubi. Poi, la sabbia sembrò incendiarsi, un bagliore accecante invase la notte, e una colonna di pura luce bianca saettò verso il cielo, perfetta nella sua lucentezza, altissima nella sua estensione. Le creature iniziarono a danzare introno a quella colonna, sotto gli occhi estrefatti del poeta, e..." Il vecchio all'improvviso si fermò, e fissò il ragazzo. "Ma raccontata così non rende l'idea. Avresti dovuto sentire come la raccontava il poeta…Scrisse anche un libro sulle creature, che io ho avuto la fortuna di leggere. Mi piacerebbe fartelo vedere, ma sfortunatamente è andato perduto molti anni fa. Magari posso recitarti qualcosa di ciò che ricordo. Sfortunatamente sono solo alcuni brani, solo poche pagine delle decine che scrisse. Ma sono passati tanti anni... Vediamo... come facevano? Ah sì , mi sembra che fosse così:
“Le creature cantano con voci melodiose, e le loro parole sono canti che nascono dal profondo degli abissi. Una colonna di luce s’innalza dalla sabbia, e le sue spire colorate arrivano fino al cielo. Danzando intorno a quel rilucente pilastro d’eterea luce marmorea intonano canti che non potrò mai dimenticare, e seguendo il ritmo di note sconosciute ad orecchie umane arrivo a concepire con la mia mente l’infinita eternità delle profondità marine, le rilucenti città di basalto e granito che rifulgono di strane luci sotto la cupa volta oceanica, dove la pallida luce solare non osa penetrare. Le creature raccontano la loro storia al cielo, la storia di un viaggio e di una caduta, della ricerca della verità e della delusione di scoprire che la verità è preclusa agli esseri corporei…
Nella volta policroma sopra di noi le scintille s’incontrano e si scindono, e formano immagini di strani mondi alieni che da milioni d’anni sono morti, agonizzanti alla luce diafana di un sole senza più calore. Quelle pallide immagini sono i ricordi dei pianeti che hanno visitato durante la blasfema ricerca che gli ha condotti attraverso i più remoti angoli dell’universo, sulle tracce di antiche mitologie per scoprire la Verità. E quando il gelo delle notti cosmiche penetrò nelle loro anime, quando la solitudine delle sconfinate distese siderali invase le loro menti, quando anche ciò che sembrava immortale iniziò a temere la morte, le creature scesero su un giovane pianeta riscaldato da un sole possente, e qui edificarono città immani al riparo dalla fredda luce delle stelle. E mentre il mondo sulla superficie nasceva, si sviluppava, pulsava di vita e furore, loro dalle immobili distese marine, loro per cui un milione d’anni sono una frazione infinitesimale della loro eternità, loro che avevano visto tutto ciò che questo universo può offrire…provarono invidia per quegli esseri antropomorfi che, concluso il loro ciclo vitale, potevano andare incontro al caldo, riposante abbraccio purificatore della morte. Le creature vivevano un’attesa lunga interminabili eoni nelle profondità marine, ricordando con tristezza le stelle che illuminavano i cieli d’altri mondi, i loro pianeti natali da cui se ne erano andati per scoprire il segreto della vita…
Quando salgono in superficie, nelle fredde notti autunnali, con le loro arti arcane innalzano colonne di fuoco al cielo indifferente, e i loro canti sono inni a quei mondi remoti, sono invocazioni d’aiuto a divinità aliene che sono troppo lontane per ascoltarle, sono il testamento spirituale di una razza per cui il peso delle interminabili ere oceaniche inizia a essere insopportabile.”
Anche il mare si era calmato, e sulla spiaggia deserta non si udiva ormai alcun suono. “Questa è solo una parte di quello che scrisse. Peccato che non mi ricordi altro ma sai, sono passati così tanti anni che è normale. Il poeta riempì pagine intere, e furono le cose più belle che mai avesse scritto, piene di tristezza e di mistero, di grandezza e di nostalgia per ciò che si è irrimediabilmente perduto”. “E poi che successe?” chiese Kevin. “La sera dopo, quando Caroline arrivò in spiaggia e corse verso il suo amore, questi le andò incontro. La ragazza si fermò, spaventata dagli abiti spiegazzati del poeta, la barba non rasata, e lo sguardo febbrile che c’era nei suoi occhi. Quando lui tentò di baciarla, lei si ritirò, e allora il poeta iniziò a raccontare quello che aveva visto la sera prima, e parlò delle creature, della colonna di luce, e gridando richiamò l’attenzione di tutti coloro che erano sulla spiaggia. La gente si accalcò intorno a loro due, e quando il poeta tentò di afferrare Caroline, le braccia degli altri ragazzi lo strapparono dalla ragazza, lo gettarono a terra, e mentre lei, in lacrime, veniva accompagnata a casa da alcune amiche, il poeta continuava a urlare delle creature sulla spiaggia, delle città sottomarine, e la gente lo guardò come si guarda un pazzo, qualcuno gli intimò di finirla, e poi tutti se ne andarono, senza aspettare che i falò si appagassero. Da quella notte non vi furono più feste sulla spiaggia. Il poeta continuava ad andare in riva al mare ogni sera, e a guardare l’oceano silenzioso, chiedendosi perché le creature non tornassero, pregando di poter rivedere almeno una volta nella vita quella colonna di luce che saliva fino al cielo, e scrivendo quelle parole che ti ho recitato. Poi l’estate finì, arrivò l’autunno e la spiaggia continuava a restare deserta. Venne il freddo, la pioggia, e il poeta era sulla spiaggia ogni notte, incurante delle intemperie. Qualcuno disse che non era bene per la sua salute che continuasse questa vita, che evidentemente non stava bene di testa e doveva essere curato. Così un giorno d’ottobre vennero a prenderlo dei dottori in camice bianco, mentre era seduto nella sua povera casa e scriveva le sue storie su un vecchio quaderno…nessuno sa che fine fece quel quaderno, e con esso sparirono tutti i sogni e le parole del poeta. Lo portarono in ospedale, e da lì in un manicomio grande e sterile. Passò quasi 50 anni lì dentro”.
Il vecchio si zittì, e con occhi inespressivi fissò il mare distante. Kevin lo guardò, incapace di aprire bocca. Dopo alcuni minuti di silenzio, il vecchio parlò ancora. “Caroline si sposò un anno dopo con giovane un avvocato, figlio d’alcuni commercianti della zona. Fu un buon matrimonio, i due ebbero tre figli, magari conosci qualcuno dei loro nipoti…Il poeta non smise mai di pensare a lei durante tutti questi anni, ma non le scrisse mai. Chissà se lei qualche volta ha pensato a lui. Chissà. Tu cosa ne pensi?”. E si voltò verso Kevin. Il ragazzo osservò quel volto solcato dalle rughe, quegli occhi opachi per la fatica, quelle labbra stremate dagli anni. “Non lo so…non lo so” fu tutto quello che riuscì a bisbigliare. Il vecchio lo osservò in silenzio un istante, poi, sempre fissandolo, accennò un sorriso. Senza dire altro si alzò e iniziò a camminare lungo la spiaggia, seguito dai due cani che giocavano rumorosamente. Kevin continuò a seguirlo con lo sguardo, finché la sua sagoma fu solo un’ombra che si stagliava contro l’oceano silenzioso, incendiato da un sole calante.
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