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Racconti dalla Città delle Pu**ane
Era una mattinata fredda, nell'antica Città dell'Uomo; le nuvole della notte si scioglievano alla luce del sole nascente come lacci di un corpetto fra le mani di un Barone del Vizio.
I tetti di pietra scura brillavano di riflessi malati, che in una cacofonia silente davano al paesaggio un'aria di decandente bellezza.
Era quello forse, l'unico momento in cui era possibile osservare la vita, in una delle sue molteplici forme, in quella che ora veniva chiamata da tutti "La Città delle Puttane"... Prima che le vie si riempissero di carne scoperta, di filosofi della pedofilia, di cortigiani dei Baroni del Vizio, che rappresentavano in quel luogo la classe dominante dall'incestuosa nobiltà...
Morto, quella notte, aveva dormito davvero bene.
Il suo letto era stato di raso, ed il silenzio dell'obitorio, ornato d'incenso, aveva cullato i suoi sogni. Rise guardandosi attorno, era succeso di nuovo.
Non era la prima volta che si svegliava in una bara, ed in effetti non c'era da stupirsene, visto che il suo aspetto, da quando viveva in quella città, assomigliava ogni giorno di più a quello di un cadavere.
Morto. Così lo chiamavano, anche se lui sapeva che il suo vero nome era Sogno, ma non importava; non aveva mai condiviso nulla con gli abitanti di quei vicoli apiccicosi di ciprina, e la lingua ed i suoi significati non erano che l'ennesima diversità. Aveva quindi deciso che nella Città delle Puttane la parola "sogno" si pronunciava "morte", in fin dei conti.. solo di suoni si trattava..
Non tanto diversi dagli ululati, dai mugulii, dai grugniti che si levavano dai vicoli in cui persino le immondizie venivano ornate di drappi colorati, per conferire a quella discarica dell'animo umano un aspetto regale.
E così, nobili figuranti si accalcavano su montagne di liquame perlato, aggrovigliando i loro corpi come barocchi vezzi architettonici. Dalla cima di queste piramidi di carne elegantemente contorta, i Baroni del Vizio gettavano il loro sperma e lacci di cuoio, con cui i partecipanti all'orgia avrebbero potuto legarsi, in un amplesso urlante senza possibilità di fuga.
Molti viaggiatori venivano alla città in cerca di morte, ed i cumuli di carne, la mattina, erano spesso rigidi ed inanimati. Uomini incapaci di sognare giungevano lì in cerca di una visione, di un volo, di liberazione, ma la maggior parte di loro non sapeva che nella Città delle Puttane la parola "sogno" si pronunciava "morte".
L'uomo cadavere trovava grottesco questo insano affannarsi ed in un certo senso ne era divertito. Uscì dall'ombra e si incamminò per i vicoli.
La copulazione borghese era già cominciata; il rituale dell'orgasmo crepuscolare riempivagià le piazze ed i colonnati.
Sentì le tarme che avevano nidificato nella sua schiena che si muovevano e provò un moto d'affetto per la loro innocenza.
"Dove siamo capitati?" chiese rivolto ad una mosca che si affaccendava in una delle sue piaghe. Sorrise. Nel suo corpo morente c'era più vita che in tutto quel formicaio di pietra che lo circondava.
Scansò una donna dai seni prosperosi che gli si era parata davanti; raccolse uno scarafaggio impaurito, che era rimasto immmobile sul lastricato e lo depose delicatamente fra i suoi radi capelli. Le formiche che popolavano il suo capo lo accettarono di buon grado.
Ad un tratto un giovane uomo nudo, abbracciato a due donne più anziane di lui, gridò: "Che schifo Mostro! Che schifo che fai!!"
Le donne non risero, erano disgustate dalla sua presenza.
Una di loro interruppe persino la fellatio che l'aveva tenuta impegnata fino a quel momento. Il giovane, tatuato e bello, allora si alzò in piedi e si diresse verso il corpo deambulante con fare minaccioso. "Vattene schifoso! Non gradiamo la tua presenza oscena! Ripugnante scarto, il solo vederti mi disgusta!"
L'uomo decomposto sorrise sarcastico, si calò i pantaloni e disse, afferrandosi il pene bluastro: "Sono un uomo come voi, anzi, sono voi!"
Si strappò quell'appendice di carne morta e la tirò verso le donne, e alle parole "Tenete, ve lo regalo!" esse balzarono in piedi urlando e dimenandosi.
A quel punto il giovane reagì violentemente: lo prese per il collo, sollevandolo da terra. Qualche farfalla bianca si alzò in volo, come per difenderlo, ma il morto non aveva alcuna intenzione di ribellarsi, anzi, pareva divertito.
Rideva mentre l'uomo nudo lo gettava nello scarico in cui venivano buttate le immondizie putride, che finiva in un rivolo marciscente, e poi giù, fino alla palude.
"Ciao ciao!" disse il cadavere precipitando oltre il muro di pietra.
Per un attimo volò, leggero come una rondine. Il vento fischiava sulla sua carne tremula e la terra si avvicinava rapidamente.
Chiuse gli occhi. Il rumore del tonfo che seguì echeggiò nei suoi sogni per un tempo indefinibile..
Quando rinvenne, la luna era alta nel cielo. Si guardò.
Il suo corpo non era poi malmesso più di quanto lo fosse prima del volo. Gli insetti parevano averlo abbandonato e qualcosa di nuovo si stava muovendo nella sua pancia.
Ratti. "Benvenuti" disse il corpo steso nel fango. Una grossa nutria lo guardò negli occhi soffiando, e gli addentò il naso.
"Sì, sì fate pure amici miei. Era un po' di tempo che volevo liberarmi di questa carne putrescente"
I roditori, dopo un attimo di titubanza, ripresero il loro lavoro, premurosi: ognuno di loro aveva dei figli da sfamare; ognuno di loro doveva sopravvivere all'inverno.
Quando il pasto fu concluso, e il cadavere completamente spolpato, così com'erano venuti, se ne andarono, rifugiandosi nelle loro tane scavate a pelo dell'acqua, o all'interno dei trochi marci che circondavano l'acquitrino.
Lo scheletro osservò gli animali allontanarsi. Si alzò in piedi.
La luce della luna faceva brillare le sue ossa, ed il bagliore biancastro gli conferiva un'aria regale.
"Avete fatto davvero un ottimo lavoro" si compiacque Morto. Si sentiva completo, finalmente anche lui era diventato una scultura vivente, plasmato della natura, un'opera d'arte che risplendeva di ossea vitalità.
Guardò le lucciole volare attraverso le sue braccia e migliaia di riflessi danzarono nella vastità lunare del suo cranio vuoto.
"Dio, come mi hai fatto bello. A tua immagine e somiglianza, ti ringrazio dal profondo del cuore..."
Era commosso. Sentiva il desiderio di piangere, così raccolse del fango, se lo spalmò sulle guancie, ed esso gocciolava a terra, ritmando il suo concavo singhiozzare di gioia.
Il cielo si stava coprendo, e le stelle, ad una ad una si stavano spegnendo.
Il muschio della palude rispose cominciando a manifestare una tenue, diffusa fosforescenza.
La magia che permeava quel posto lasciò lo scheletro senza parole, senza che desiderasse muovere un solo dito, non c'era cosa che non accadesse attorno a lui.
Rimase così in piedi, immobile, mentre il tempo cercava di convincere il mondo della sua esistenza.
Giorno e notte si inseguivano, e parevano battiti di ciglia per lo scheletro, rapito da quel momento di eternità.
Piante e fiori crebbero fra le dita dei suoi piedi, fino alle ginocchia. Funghi variopinti iniziarono a spuntargli sulla schiena ed il muschio, verde e profumato cominciò ad avvolgere le sue costole come soffice velluto.
Mesi, anni, forse decadi dopo, Morto riacquistò coscienza di sè. Un sorriso agghindato di non-ti-scordar-di-me si era formato sul suo viso ormai completamente ricoperto di vegetazione.
Mosse un passo verso l'acqua, e quando vide la sua immagine riflessa, se ne innamorò.
Era come un albero in fiore, una voce della foresta, una casa per le farfalle. Un mantello di funghi rossi gli copriva la schiena, ed ogni parte del suo corpo ospitava una forma di vita diversa.
Ad un tratto il pensiero gli tornò alla città che si era lasciato alle spalle, un' inspegabile nostalgia.. desiderava tornare.
"Chissà.." Se un sentimento del genere si era fatto spazio dentro di lui, probabilmente un motivo c'era. Quale che fosse, non aveva troppa importanza per lui.
"Le cose," concluse "sfuggono spesso alla nostra comprensione". Così si incamminò, con la testa ancora immersa nelle pacifiche acque salmastre che erano diventate a tutti gli effetti la sua nuova casa.
La città, com'era prevedibile, non era cambiata per nulla, anzi, la piaga festosa che l'animava si era fatta ancora più diffusa, più spavalda.
I pochi mercanti che ancora avevano un'attività vendevano oggetti d'amore carnale, convessi orifizi dalle forme più svariate. Nessuno coltivava più, nessuno, forse, sentiva più il bisogno di mangiare.
"I morti non mangiano, i sogni... nemmeno..." pensava l'uomo della palude "Ma quali sogni popolano questo posto? Quale volo, o libertà, nella città dell'eccesso?"
Provava in fondo una certa tenerezza per gli abitanti di questo luogo paradossale. Bambini sperduti, posseduti da un'iperbolica, compulsiva, ipersessualità.
Doveva essere un giorno particolare, perchè ogni via era in festa, agghindata ed opulenta.
Un'orchestra di cortigiani sbronzi accompagnava le ridenti perversioni che si strofinavano alle colonne di marmo e sulle scalinate; uomini depilati e dal fisico scolpito bagnavano di olii profumati cataste di corpi nudi, che come onde, danzavano il ballo dell'abbandono; i Baroni iniziavano le bambine all'acerba sodomia, era la cosiddetta "Festa dell'Amore". Ogni cosa era tirata a lucido, ogni barba era rasata, ogni ingresso, aperto e agghindato di fiori.
Solo una figura non rincorreva, rideva, rotolandosi nei profumi come tutti gli altri, lo riconobbe, era il giovane che un tempo lo indusse a lasciare la città.
Si diresse verso di lui, voleva ringraziarlo per quel che aveva fatto. "Ciao amico" disse, ma l'altro non si mosse, sembrava non averlo notato.
I suoi occhi erano socchiusi, la sua pelle piena di chiazze e pustole, le sue mani tremanti.
L'uomo rannicchiato non ricordava più da quanto tempo era seduto in quel vicolo... Forse anni, giorni, minuti, attimi di ingiusta sofferenza, scanditi ora da colpi di tosse, ora da spruzzi di sangue... era consapevole del fatto che la morte, dopo averlo inseguito per tutta la vita, lo aveva infine raggiunto.
Dalle fessure dei suoi occhi riusciva ad intravedere un lontano paesaggio.
Si dice che prima dell'ultimo istante, la vita ci passi davanti, e lui, in quel momento, rivedeva le foreste, i campi in cui era cresciuto, gli alberi, i fiori ed i funghi che nella sua infanzia avevano incoronato i suoi giorni di magia e stupore.
Rise come un bambino, era dolce abbandonarsi a quelle terre... Dopo tanto viaggiare, dopo tanto mentire, la verità e la bellezza lo abbracciavano nell'attimo della morte. Nel profumo dei fiori. Nel verde colore della vita.
Sentì una voce, e la sua anima tremulò come una fiammella in procinto di spegnersi.
Il ragazzo improvvisamente prese a contorcersi. Morto gli era vicino, davanti, lo chiamò: "Amico mio"
La risposta fu "Madre... abbracciami ti prego"
Lo scheletro della palude era stato chiamato in molti modi ma mai "Madre". Percepì verità e senso, una ragione preesistente.
Con tutto l'amore che nella sua vita aveva avuto la fortuna di conoscere lo abbracciò.
Lasciò che il moribondo appoggiasse la testa sul suo petto, rannicchiandosi come un feto nel grembo erboso.
Le mani del ragazzo si infilarono fra le sue cosce fiorite, ed ancora non glielo impedì, lasciandogli affondare le dita nelle sue cavità ossee.
I due corpi quasi fusi l'un l'altro restarono così, immobili, fino a quando il giovane non esalò l'ltimo respiro.
Morto attese un momento, e poi gettò il suo cadavere oltre il muro di pietra, seguendolo con lo sguardo mentre cadeva nella palude.
I topi rapidamente si ammassarono su di esso, ma questa volta, non lasciarono indietro nulla.
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