racconti » Racconti autobiografici » Ciao Essere
Ciao Essere
“Il nostro errore più grande è quello di cercare negli altri le qualità che non hanno, trascurando di esaltare quelle qualità che invece realmente possiedono”
Marguerite Yourcenar
Un punto interrogativo. Era diventato il suo segno preferito. Un arabesco che, per convenzione, si ritrovava ad essere compagno di chi continua a porsi dei perché che spesso non sono fatti per avere una risposta.
Camminava, con in mente un punto interrogativo, o forse due. O forse molti. Camminava in quella falsa primavera che aveva visto i fiori rosa degli alberi sparire troppo in fretta, sotto le gocce ed il vento di un inverno tornato a reclamare quello che pensava essere suo. Era giovane, era vecchia? Era sbattuta come il ramoscello con i fiori anneriti dai grossi chicchi di grandine, eppure c’era in lei qualcosa che somigliava alle gemme di quelle giovani piante. Si sentiva troppo giovane. Si sentiva troppo vecchia. Ma chi poteva dirgli come era giusto sentirsi?
Camminava, ed aveva smesso di piovere. Aveva deciso di uscire dalla coltre delle coperte sotto la quale i suoi pensieri erano diventati troppo assordanti e disordinati. Nel buio le sembrava di vederli passare, mischiarsi, intricarsi come i fili intrecciati dal becco inesperto di qualche uccello, in un maldestro tentativo di creare un nido d’amore. Così era uscita. In un giorno di festa è quasi tutto deserto. Ed è quasi tutto deserto anche in un giorno di pioggia. Facendo due più due, era sicura che non avrebbe trovato anima viva, sulla sua strada.
Sebbene non avesse una meta precisa, dopo tanti passi compiuti con aria assorta, decise che il suo punto d’arrivo, per un primo momento, sarebbe stata quella panchina, forse un po’ umida, ma lontana quanto bastava dalla strada per non vederla, ma per sentirne ogni tanto i rumori ovattati e discreti. E li ricominciò a pensare.
Quel punto interrogativo si era frantumato in tante piccole copie, l’aveva quasi fatta impazzire. Ed era triste, era euforica, e poi era di nuovo triste, perché impaurita dalla sua euforia. L’euforia poteva essere sbagliata, poteva non essere quello il suo momento. Qualcuno gliel’aveva fatta pagare, per quel suo saltellare allegra come una bambina, quando si era dimenticata di sentirsi triste.
Sciocchezze, era quella la via giusta. Ma forse non era il suo momento per imboccarla, e gli si era parato davanti qualcuno dei suoi fantasmi a ricordarglielo.
Aggrottò le sopracciglia sottili, dopo aver scostato, un po’ infastidita, i capelli che venivano mossi dal vento umido. Alzò gli occhi al cielo. Le nuvole si spostavano veloci, il sole pallido avrebbe ben presto smesso di lottare e si sarebbe facilmente lasciato coprire.
Quei piccoli punti interrogativi si ingigantivano uno ad uno, man mano che lei vi prestava attenzione. Così esclamò:
- È impossibile, così non si può ragionare
- Esattamente
Qualcuno parlò. Era una voce calma, bassa, che richiamò i suoi occhi, abbassati sul terreno. Quando li alzò vide una figura, ovviamente, ma non la riconobbe. Era un uomo, eppure non lo era. Forse lo sembrava. Ma il suo volto non era un volto, i suoi occhi non erano occhi. Cos’era? Avrebbe dovuto domandarselo, invece quella voce bella e melliflua cancellò questi quesiti, non le diede nemmeno modo di porseli per un secondo. Con una sola parola, quell’Essere, le aveva fatto dimenticare che forse bisogna diffidare da chi non è quel che sembra. E anche da chi non sembra niente:
Notando che lei continuava a fissarlo, l’Essere assunse quello che apparve come un sorriso. In modo lento mutò la sua espressione, in modo da darsi il tempo di scrutare il volto di lei. “Curioso”, si disse “ha degli occhi enormi”. E guardandoli gli sembrò di vederli cambiare. Di vederli ridere, illuminarsi, aprirsi nella sorpresa. Stringersi di rabbia. Arrossarsi di pianto. Fissare un punto nel vuoto. Fissare altri occhi, cercarvi qualcosa:
- La confusione è strana?" esclamò, avvicinandosi di un paio di passi?" può sembrare rumore, anche quando c’è silenzio
- Alle volte c’è troppo silenzio
Rispose lei, continuando a lasciare che i suoi occhi vagassero su quella figura. Sembrava avere i contorni sfumati. Un corpo che non era un corpo, sotto quei vestiti troppo lineari e semplici, scuri, che lo rendevano un figura nera contro il biancore della giornata nebbiosa. Eppure continuava a non chiedersi chi fosse, come se qualcosa le stesse sussurrando all’orecchio che andava tutto bene, che lì in quel momento c’era tutto quello di cui aveva bisogno. L’Essere si avvicinò ancora, poi si sedette al suo fianco:
- Posso?
- Faccia pure
Rispose educatamente Lei, scostandosi appena come per lasciare spazio, nonostante ce ne fosse in abbondanza, in un gesto che voleva essere solo di pura cortesia:
- A cosa pensi? Come mai tante domande in una testa così piccola? Senza offesa, naturalmente
Un piccolo sorriso Lei non riuscì a trattenerlo. Quella voce era troppo amichevole per non volerla sentire ancora, per non voler lasciare che ponesse domande, magari indagatrici, su affari che no, non lo riguardavano.
Eppure le sue mani non erano mani:
- Forse c’è troppo spazio dentro questa testa piccola e non avendo niente con cui riempirla, allora nascono spontanei tanti quesiti.
Annuì, Lei. Si doveva essere così:
- C’è chi non si pone domande sai? Dall’inizio alla fine non si chiede cosa succede. Non si chiede cosa c’è oltre. Accontentandosi di quello che ha riesce a sfruttarlo, riesce a vivere in modo autonomo, un po’ lasciandosi trascinare dalla corrente, un po’ proseguendo per inerzia. Vita semplice probabilmente. A parer mio una vita povera di significati. Non porsi domande equivale a dare tutto per scontato. E a non cercare, tra le pieghe che crea la vita, quello che magari è il nostro vero spazio. Non sei d’accordo?
Lei rimase a riflettere un attimo di troppo su quelle parole. Doveva impegnarsi per non ascoltare solo le note emesse da quella voce, per prestare davvero attenzione.
{ C’erano stati degli occhi, nei quali aveva deciso di non guardare, quando le parole dovevano essere serie. Perché quegli occhi richiamavano qualcosa dal profondo, che non le permetteva di sentire quella che era la verità}
Lui sapeva, e sorrise. Conosceva quell’aria un po’ abbattuta, l’aveva vista in quell’attimo negli occhi troppo grandi di Lei. Conosceva quegli occhi che l’allontanavano dal reale impedendole di riafferrare la sua dignità al momento opportuno. Così continuò:
- C’è chi nasce per porsi domande. Probabilmente questo succede perché è fatto per avere delle risposte. È essere ricchi questo. Ricchi di significati, che forse non sono giusti, che forse non hanno senso per il resto del mondo. Eppure ci sono.
In quel momento Lei riprese a parlare, come destata da qualcuna di quelle ultime parole:
- Così anche se non lo sappiamo è già tutto dentro di noi. Non credevo ci fosse tanto spazio, per contenere anche tutti questi significati.
- L’anima è grande. E più grande è, più riesce ad entrare in contatto con il mondo esterno. Piccolo corpo, anima grande…e si soffre, perché i contorni si confondono, gli argini si rompono, e qualcosa finisce per uscire, qualcosa riesce ad entrare di prepotenza.
Lei annuì.
{ Aveva lasciato che gli argini si rompessero. Ricordava quasi il momento esatto in cui era accaduto. Ricordava per cosa era accaduto. Ricordava per chi}
Ogni volta che lei si perdeva in questi ricordi, l’Essere sorrideva, con quel sorriso che non era un sorriso:
- Perché uno dei tuoi interrogativi è così vicino alla morte?
- Perché ci sono momenti, secondo me, in cui si diviene la Morte. Come ci sono momenti in cui diveniamo l’Amore, o semplicemente la Noia. Diveniamo la Morte. Ma la gente non vede.
Non si domandava come mai Lui sapeva. La sua voce, sembrava dargli la calma che occorreva per rimanere li, a parlare di tutto e di niente, senza porsi altre domande, che non fossero quelle che già aveva dentro di se. Una benedizione, l’avrebbe definita, se avesse saputo. Continuò:
- Spesso la gente non vede perché non vuole vedere. Ma è più facile che veda e non domandi per paura. Perché è facile pensare che è tutto stupido e troppo amplificato.
- Concedimi di dirti che tu sei troppo convinta di tutto questo. Cosa ti fa pensare che la gente ti giudichi? La gente non domanda perché spesso non vuole sapere. O non domanda perché ti vuol bene, e chi ti vuol bene non può giudicarti. O almeno non dovrebbe.
- Forse dovrebbe provare a farlo, per comprendere che c’è qualcosa di sbagliato.
- Chi può giudicare cosa è giusto e cosa è sbagliato, in una persona? Nessuno può, ne deve, ergersi a giudice, se non di se stesso. E anche questo può essere fonte di grandi problemi. Perché o si è troppo indulgenti o si è come te. Si diviene, se mi concedi di dirlo, senza offenderti, come un adulto pedante che insegue un bambino fermando ogni istante la sua mano, prima di una nuova scoperta.
Si diviene il proprio boia, usando un paragone meno delicato. E forse questo ti si confà maggiormente.
{ Aveva già sentito questa frase }
Continuava a guardarsi attorno con quegli occhi troppo grandi, rotondi. Fissava il sole che si stava abbassando. O forse le nuvole erano divenute davvero troppo dense:
- Il proprio boia, si…- sussurrò piano, pensando ad alta voce?" Ogni tanto è questo che penso di essere. Il mio carceriere. Potrei essere libera, e invece continuo a stringere catene che creo da sola, o che saprei benissimo come sciogliere. E in questo modo continuo a fare del male agli altri.
- Gli altri, gli altri. Bambina, è di te che stiamo parlando
- “l’egoismo non consiste nel vivere come ci pare, ma nel far vivere gli altri come pare a noi” diceva Oscar Wilde. Io sono molto egoista
{ Quante volte ne aveva avuta la conferma. Quante volte aveva sentito salire la rabbia per questo suo egoismo, per la sua incapacità di fare del bene. Ogni volta che prendeva coscienza del fatto che non era riuscita a regalare un sorriso, un momento di serenità a chi amava}
- Sai, il mondo non gira attorno a te. Le persone possono scegliere. Non hai così tanta forza da costringerle. Guardati. ?" La voce dell’Essere si fece un po’ più dura, sembrava avere una vaga, leggera, nota di scherno?" sei poco più che una bambina e di certo non hai l’aria imponente. L’unica cosa che puoi usare come arma sono quei grandi occhi che ti ritrovi. Non penso che tu riesca a convogliare li tutto il tuo egoismo per costringere gli altri a pensare solo a te. Non riesci nemmeno a gestire le tue lacrime, come puoi pretendere di avere un così grande potere sugli altri?
Calò il silenzio. Per un secondo a Lei sembrò di essere immensamente piccola, rispetto a quell’Essere che aveva accanto. Di nero vestito, sembrava acquistare una vaga ricchezza di dettagli, man mano che lo fissava. Eppure ancora non era un uomo, non era un ragazzo. Non era. E non destava paura, nel suo cuore di solito così pavido, anzi. Avrebbe voluto solo nascondersi tra quelle braccia, che davano l’idea di essere capaci di regalare un abbraccio pieno di uno strano oblio, proprio come quello che aveva nello sguardo Lui:
- Non desiderare quello che non vuoi, Bambina.
Disse, la voce di nuovo gentile e lenta, incrociando le dita sottili poggiate sulle proprie ginocchia.
{ Se l’era detto anche lei. “Non desiderare quello che sai ti porterà al pentimento. E potresti pentirti troppo tardi. Non desiderare che la confusione regni sovrana attorno al tuo corpo senza vita. Non desiderare di impazzire davvero, per non avere più la coscienza di quello che accade nella tua testa. È un dono aver la consapevolezza. Con quella puoi fuggire. Allora perché desiderare la morte, quando ti accorgi di non poter avere il resto? Si desidera il sonno quando si è stanchi, non quando non ci si può sentire amati. Non è uno scambio equo”}
- Quello che desidero non posso chiederlo. Anche perché c’è chi riesce a darmelo, quando può
La voce di lei tremò, si ruppe. Si fece piena di piccole crepe, così come i suoi occhi cominciarono a coprirsi di un velo pronto a vacillare in ogni attimo, a spezzarsi lasciando cadere grandi lacrime sulle guance chiare:
- C’è chi fa tanto e per il quale io non riesco a far niente, se non destare preoccupazioni inutili. Perché io stessa non ho il coraggio delle azioni che vorrei compiere.
{ il ricordo di una frase la fece sorridere tra le lacrime. “Ballerei sulla tua tomba se lo facessi”}
- Forse invece non voglio davvero farlo e tutte queste fesserie sono solo una richiesta d’aiuto, il vano tentativo di scacciare, con un colpo di testa, tutto quello che sento essermi crollato addosso. Perché non riesco più a rifugiarmi nei ricordi. Ogni ricordo fa troppo male
Si fermò, ricacciò indietro le lacrime e guardò l’Essere. Osservò il suo profilo, che a stento si delineava contro il biancore delle nuvole, mentre aspettava, probabilmente, che lei andasse avanti. Così, soffocando un singhiozzo, cominciò a parlare, a lasciare uscire dalle labbra un fiume di parole che di li a poco sarebbe sembrato inarrestabile:
- Non riesco a pensare a come erano prima le cose. E so che non sto tornando indietro. Invece qualche volta vorrei, vorrei eccome, lo vorrei con tutta me stessa. Vorrei aprire gli occhi e sapere che manca poco, qualche ora soltanto, ed avrò il mio momento di calore, il mio momento di gioia e risa, il mio momento d’amore. Vorrei tornare indietro e pensare che riderò ascoltando chi mi prende in giro perché sono così diversa e piena di vita adesso. E invece no. Ed ogni volta che apro gli occhi e comprendo che non è più così, ecco che sale qualcosa. Come una nausea inarrestabile che però non si decide a sfogarsi. Ed allora ecco! ?" La sua voce si fece carica di enfasi?" Ecco che comincio a tremare, che non percepisco più qual è lo spazio, qual è il tempo che posso usare. Ed ecco che non mi faccio più domande, che i pensieri si accavallano facendo rumore, troppo rumore. Non riesco a sentirli, sono persa, come un bimbo solo in mezzo alla stazione, nell’ora di punta. Tutti passano, nessuno vede e lui grida. E io grido, ma grido dentro di me, per non farmi sentire. Per riguardo verso gli altri, che non abbandono nemmeno nel momento della follia.
Finché non dimentico anche loro e metto tutto a tacere. Il sangue lascia i pensieri attoniti, o forse li calma. Forse li rabbonisce, come bestie che non aspettavano altro che il momento del sacrificio per piantarla di digrignare i denti e farmi impazzire con i loro latrati. E poi il silenzio. E per un momento i pensieri non li sento più.
La voce chiara era salita di tono, non di volume. Sibilava a momenti, in altri tremava ancora. Fino a quando non alzò il visino, che aveva tenuto basso fino a quell’istante, parlando fissandosi le mani. Rigato di lacrime, lacrime che erano scese a dispetto di ogni volta che aveva stretto i denti per impedire che venissero liberate. Alcune, grandi, erano impigliate nelle lunghe ciglia che circondavano quegli occhi tondi. L’Essere le lasciò qualche istante per calmarsi, poi sospirò:
- A cosa serve tutto questo? Non ti senti meglio dopo aver provato dolore.
Lei scosse la testa:
- No, mi sento solo stupida. E percepisco un nuovo fallimento. Perché guardo la macchia allargarsi con la consapevolezza che non si allargherà abbastanza. Che non ci saranno pupazzi di un’infanzia, ormai troppo lontana, impregnati di rosso brillante. Non ci sarà la calma. La testa non girerà abbastanza veloce. Non girerà più velocemente di quanto non ha fatto per lo sgomento.
E mi sento stupida, di nuovo. E allora eccola ancora, la nausea, l’orrore che sale guardando il rosso vischioso, che improvvisamente diventa viscido, che improvvisamente ti riempie di orrore mentre non riesci a lavarlo via.
- Ti senti un po’ Lady Macbeth
Disse l’Essere, sdrammatizzando. Lo aveva pensato anche lei, in un momento di lucidità, mentre cercava di respirare a fondo, di non sentirsi male, di non spargere altro schifo per il bagno, pieno già di macchie estremamente sospette. Somigliava alla sua voce, quella dell’Essere, in quel tono. Ma lei non si pose troppe domande. Aveva di nuovo voglia di nascondersi tra le sue braccia. Non lo conosceva, eppure le sembrava di non aver scelta.
{Lei sdrammatizzava sempre. Perché ogni volta che chiedeva disperatamente aiuto, ogni volta che si trovava davanti a chi aveva rivolto il suo grido, si sentiva incredibilmente stupida, e sdrammatizzava, con quella sua punta di sarcasmo che non riusciva ad abbandonare}
L’Essere, avvolto nei suoi vestiti neri, rimase li, vicino a lei, seduto su quella panchina, mentre il sole continuava a scendere. Ormai l’aria si era fatta colma di un’umidità fastidiosa e fredda. Ma lui non poteva sentirla. La percepiva attraverso la pelle di lei. La vedeva attraverso gli occhi di lei, quell’acquerugiola che copriva le foglie tenere:
- Chi sono io, lo sai?
Domandò lui, mentre lei lo guardava tirando su col naso, in un gesto molto infantile. Qualcosa, in un attimo, l’aveva scossa e l’aveva portata a seguire quelle sue parole. E nella sua mente nacque quel nuovo punto interrogativo. Ma no, lei non si era chiesta niente.
- E non ti sei domandata come mai. ?" L’Essere sorrise e si strinse nelle spalle?" succede spesso, cosa voglio pretendere. Hai già tanto da chiederti.
La Bambina lo osservava, sbatteva piano le ciglia mentre Lui prendeva forma, diventando consistente, ma continuando ad essere quello che non era. E attraverso i suoi occhi, in quel lungo istante, l’Essere vide tante altre cose.
{ Vedi le gioie. Vedi volti amici vicini e lontani. Vedi ricordi di momenti indimenticabili. Momenti a cui pensi, nonostante il dolore, perché non vuoi dimenticare. E anche se era buio, anche se i tuoi occhi non hanno davvero visto, ricordi perfettamente con gli occhi delle tue mani, con gli occhi del tuo corpo. Con gli occhi di un calore mai provato.}
Erano occhi i suoi che si erano fermati a guardare ogni cosa. Occhi troppo inclini a riempirsi di pianto, per la gioia, per il dolore, per lo stupore dato da quello che l’uomo riesce a creare. Erano occhi che per lunghi momenti avevano indugiato su figure reali, su figure che silenziose ascoltavano solo i propri pensieri, chiudendola fuori da ogni possibilità di agire. I suoi occhi in quei momenti avevano gridato, perché solo loro avevano il coraggio che lei non aveva.
{ Lasciatemi entrare, lasciatemi fare qualcosa, lasciatemi provare!}
- Perché hai continuato a provare, pur sapendo che non puoi, che non è quello il tuo compito?
- Perché non mi do per vinta. Non ho forza di volontà, questa probabilmente si chiama solo paura. Ed è questa che chiama la Morte, che chiama il dolore. Il sentirsi incredibilmente soli ed incapaci di fare qualcosa. Tutti fanno qualcosa per te…e tu non puoi far niente. Sono incredibilmente egoista, e non ho possibilità di riscatto. Sono sbagliata, il ruolo che voglio ricoprire è sbagliato, non è mio.
E finito questo si esaurisce la mia capacità di pensare a qualcosa che non sia l’immenso vortice che mi gira attorno, che non sia la pila dei miei pensieri che, sotto forma di grossi mattoni, mi schiaccia.
E in quell’attimo l’Essere decise che era arrivato il momento di parlare davvero:
- Perché tanto sgomento, Bambina? È sempre stato così, ricordi? Quando da bambina non riuscivi a dormire perché pensavi alla Morte, perché dovevi tendere le orecchie per ascoltare il respiro di ogni tuo parente. Perché rimanevi in ansia ogni volta che tua madre, troppo giovane, non rincasava la notte. E quando ti svegliavi al mattino sentivi il cuore in gola. Ma poi ti dicevi: Se fosse successo qualcosa sarebbe squillato il telefono. Quanti anni avevi? Sette, forse otto.
{Sei cresciuta un po’ troppo velocemente. Hai perso qualcosa per strada, ed adesso mancano dei pezzi, e la torre crolla}
L’Essere continuava, nonostante si fosse accorto che ormai Lei non tratteneva più le lacrime. Ogni ricordo lontano la portava ad un nuovo brivido, ad una nuova scossa. E la sua mano, bianca e viola per il freddo, premeva su quel polso che continuava a farle male. Piangi. Senti il dolore, sembrava dirgli. Sembrava quella Rabbia, sembrava di nuovo lei:
- Perché ti stupisci adesso? Perché? Forse il tuo corpo è diventato troppo piccolo per tenere tutto dentro. L’anima grande davvero ha toccato il mondo esterno e si è scottata, si è bruciata, e i bordi, come la carta, continuano ad annerirsi e a sfaldarsi.
Come quando passavi giorni da sola, in silenzio, fra i tuoi libri, cercando di non ascoltare le voci dei compagni che giocavano a fare i grandi. Che giocavano a inseguire i primi amori nel cortile della scuola. Come quando ti nascondevi nei vestiti troppo larghi. O come quando rimanevi a pensare che quello che dicevano di te era tutto sbagliato. Sopravvalutata, ti sei sempre sentita sopravvalutata. E si, avevano ragione loro a prenderti in giro, a spingerti, a stringerti quella mano al collo nei primi giorni di liceo. Perché non eri come loro, perché davvero avevi qualcosa di sbagliato. E se non riuscivi a punirti da sola, che lo facessero davvero gli altri. Che divenissero pure il tuo cilicio. Li lasciavi fare. Perché forse volevi sentirti viva e considerata. E se era con le male maniere che lo facevano…beh andava bene lo stesso.
Singhiozzava ormai, su quella panchina. Aveva avvicinato le gambe al petto, si stringeva e dondolava piano. E le lacrime uscivano, non riusciva a fermarle, a farci niente. Il groppo alla gola sembrava troppo grande.
{soffocami, soffocami ora.}
Non aveva intenzione di fermarsi, Lui. La sua espressione aveva un che di malefico, forse. O invece era semplicemente schietta. Aveva letto cosa voleva, lei. Lo aveva letto nei suoi occhi, che adesso non poteva più vedere, perché coperti dalle maniche del maglione, rigorosamente nero. Attraverso i suoi occhi vedeva solo quelle macchie di finta luce che si muovono solitamente dietro le palpebre chiuse. Le stava dando quello che voleva:
- Nascosta, nascosta come sempre da tua madre. Un amore odio, il tuo. E tanta colpa. Colpa per la colpa che tu hai fatto nascere in lei quando sei nata. Una maschera silenziosa, scostante sotto la scusa dell’adolescenza, che invece voleva solo essere lasciata in pace per lasciare in pace. Per lasciare che vivesse la sua vita. Aveva quell’uomo, e tu non volevi averci niente a che fare. Vivessero pure la loro vita, tu volevi restarne fuori. Tanto potevi cavartela da sola. Che fosse preparare la cena o piangere ininterrottamente perché per mesi e mesi nessuno ti ha abbracciata, nessuno ti ha detto “ti voglio bene”. Un così grande bisogno d’amore…mentre tu odiavi anche solo in letto in cui dormivi, perché non volevi dipendere da loro. Non vuoi adesso, non hai mai voluto. Ti ha fatto diventare un po’ troppo cattiva, ci pensi qualche volta? Ormai sono riflessi condizionati.- LA voce si fece di nuovo, d’un tratto, melliflua:
- Un così grande bisogno d’amore. E sei divenuta l’Amore diverso, l’Amore lontano. E davi tutto, anche senza ricevere niente. A te non importa avere, quando puoi dare. Questo è il tuo egoismo. Hai giocato con chi faceva tanto affidamento su di te, su chi per prima aveva guardato in modo diverso dentro i tuoi occhi. Traevi forza dalla sua debolezza, e poi l’hai abbandonata
{ Lacrime, tante lacrime. Ancora, ancora. Pesa sul petto, tutto questo. Finire, deve finire.}
Ma non potevi continuare quella pantomima tanto a lungo?" Lui ridacchiò, con qualcosa di acido nella voce che continuava ad essere bella. La verità ferisce ancora di più, quando a cantarla è una voce che non si può far a meno di ascoltare:
- E poi la libertà. Ah la libertà dalla colpa, dalla lontananza, dalle lacrime! Erano tutti li, sempre, ma così sfumati. E tu eri aggrappata a quella forza, che ti aveva tanto lasciata di stucco. Provvidenziale, quasi, insperata più che inaspettata. L’abbandono al sorriso…
- È stato un grosso errore?" Singhiozzò. Ormai non alzava più il capo. Si vedevano solo le spalle esili tremare nei singulti.
- Non dire fesserie. Non interrompere?" Sbottò l’Essere?" non la pensi così e lo sai bene. Adori quei ricordi. Li adori anche se fanno così tanto male. E ti mancano…o si che ti mancano
{ Perché giri così, in queste mie ferite, questa lama?}
Eppure non domandi di più, perché ogni momento vagamente dolce ti risolleva tanto da farti piangere. Non che sia una novità, intendiamoci…ma piangere di sollievo, piangere di speranza.
Non so come mai non hai il coraggio. Come mai hai sempre tanta paura di chiedere quello che forse dovresti chiedere davvero. Forse perché sai che non risolverebbe niente. Non è una porta magica, che una volta aperta, ti riporterà a giorni migliori.
Credi che i segnali velati che mandi siano comprensibili per tutti. Forse comprendono davvero, gli altri, ma preferirebbero qualcosa di concreto, non pensi? O fingono di non vedere perché pensano che dirti “no” sia troppo per te. Pensano che rimarresti talmente delusa…oh povera
{ Quel sarcasmo. Quella voce, era la sua voce!}
- Sono solo sciocchezze, ecco cosa sono. Non sai prenderti quello che vuoi, come puoi pretendere di dare? Non hai niente di quello che gli altri pensano. O, in ogni modo tu non sai vederlo, non sai dov’è e non riesci a sfruttarlo. Continua, si, a pensare di essere inutile! A pensare di non essere capace di alleviare il dolore altrui, di non essere capace di essere nemmeno una distrazione. Di non essere abbastanza bella per svegliare qualcosa in chi vorresti rendere felice. Di non essere abbastanza interessante, se non per essere compatita. Guarda la direzione in cui stai andando. Guarda la direzione di chi si rannicchia nella convinzione di essere sbagliato per non impegnarsi, perché non ha la forza di agire. L’hai persa, chi sa dove. Non sai tenere niente con te, è questa la verità.
E concluse il suo discorso. La voce, quasi tonante, eppure sempre poco più che sussurrata, si fermò, lasciando spazio solo ad un ultimo singhiozzo.
{ Di nuovo, non può essere di nuovo la stessa voce}
E invece lo era. Improvvisamente si accorse di essere sola. E quella voce era nella sua testa. E quell’uomo, che uomo non era, rimaneva solo un’ombra, una delle tante con cui parlava nella sua mente, quando da sola non sapeva mettere ordine ai pensieri. Era la voce di quelle forbici che aveva premuto con tanta enfasi e poi scaraventato via. Era la voce delle sue mani che tremavano mentre non potevano toccarlo come avrebbero voluto.
Era la voce che la perseguitava, e lei le aveva dato un’immagine in cui rafforzarsi. Era lei stessa, saggia in quei rari momenti di chiarezza, piena di follia insensata nella maggioranza dei suoi attimi.
È impossibile, così non si può ragionare.
L’aveva pensato tante volte. Come aveva pensato alla Morte. Ma morire per andar dove? Non c’è Amore, nella morte. Non ci sono carezze, consolazioni. Non ci sono parole e non ci sono risa.
{ non c’è dolore }
Ma non c’è Amore. Amore che è amicizia, che è famiglia, che è amore per se stessi. Non ci sono convinzioni, non ci sono passi avanti, non ci sono scoperte. E la Morte è più vicina di quanto sembri. La Morte non è quella ferita che piano piano diventa viola e troppo visibile. La Morte è l’arrendevolezza. La Morte sono le coperte di un letto dove rimani ore ed ore da sola, pensando a carezze che non avrai più. È il pianto ininterrotto che ti toglie la fame, che ti impedisce di stare sola. Sono i tuoi occhi che diventano spaventosamente grandi, quando si fanno rossi di pianto.
È il non domandare aiuto. Il non agire nel tentativo di avere qualcosa, per la sola paura di sbagliare.
Sai che sei capace di farlo. Perché non lo fai? Perché ti spaventa tanto, quello che tanto desideri?
{perché davvero sai che è solo vanità, che non sarebbe com’era e come dovrebbe essere. Perché è colpa tua, che non ti arrendi all’evidenza }
La morte non è coraggio, non è codardia. È solo un’idea in cui rifugiarsi, un tunnel in cui avventurarsi, sempre più a fondo, finché spaventati non si torna indietro di corsa.
Sia questo per Paura o per Affetto.
{ non c’è amore. Ne per se stessi, ne per gli altri }
Ed era di nuovo da sola. Un punto interrogativo nella sua mente. Uno, dieci, cento. E il silenzio. Quella voce l’aveva lasciata in mezzo ad un vuoto, al suo horror vacui. Perché quello era. La folle paura del nulla. Quel nulla che era scomparso solo in rari momenti. Quel nulla che voleva sfuggire almeno per un attimo. Avrebbe dato qualsiasi cosa.
Ma non si può scegliere cosa far fare alle persone. E rimanendo nel dubbio, bloccati nell’umana incapacità di leggere nel pensiero altrui, possiamo solo parlare, scrivere, piangere. E sperare che prima o poi tornerà un momento fatto solo di gioia. Anche uno, che poi diverrà, come gli altri un doloroso ricordo. Ma almeno, per un attimo, sarà gioia.
Chi ci circonda è tanto singolare quanto lo siamo noi. Lei era circondata da esseri speciali quanto lei stessa, complessi, vividi. Splendidi nel loro essere incomprensibili. Liberi.
La libertà le mancava. La libertà di sentirsi leggera. Avrebbe voluto regalarla almeno agli altri. E non sentirsi una piccola zavorra, pressante alla ricerca di qualcosa che non deve più essere.
Perché le cose cambiano.
E così, dopo un intricato momento di sconforto, di confusione di questa portata, senza un senso ne apparente ne reale, lei si alzò, passandosi ancora una mano sugli occhi. Non si vergognava, perché la gente non chiede. Osserva ma non chiede. Non si preoccupa, se non sa chi sei.
E sorrise, pensando a quanto si sentiva cattiva. A quanto dolore portava a chi, nonostante tutto, continuava a starle vicino.
- Non sei mai contenta. Non meriteresti quello che hai, e intanto chiedi di più. E agli altri non ci pensi.
Era vero? Non era vero?
Era solo stanca adesso. Le nuvole cominciavano a lasciar cadere le prime gocce di pioggia. Alzò gli occhi al cielo, poi fece spallucce:
- Come posso pretendere che non piova, quando io stessa non riesco a smettere?
E anche questa volta, tornando verso casa, si rese conto di non aver imparato niente, se non la teoria. Schemi su schemi, idee giuste, mappe. Esatto. Tutto chiaro. Così chiaro che non era capace di seguirlo.
{ Grazie…}
1234567891011
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
- Hai scavato veramente dentro di te, profonda analisi! Continua. Ciao
- Vero analisi introspettiva molto coinvolgente. Perchè non continui?
- Bell'analisi introspettiva nei meandri dell'astruso essere, il nostro IO
Complimenti scrivi bene
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0