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Una panchina di distanza
Lei lo vedeva tutti i pomeriggi.
Era seduto sempre sulla solita panchina che dava le spalle alla vasca nel centro del parco. L'acqua che la riempiva, una volta avrebbe anche potuto essere cristallina, ma ora, col trascorrere del tempo, aveva assunto una tonalità coordinata agli alberi che la circondavano.
Non era mai solo, a quell'età al parco non si poteva essere soli - tranne lei, ovviamente, ma lei era un caso a parte. Sempre impegnato a giocare con le figurine Panini con i suoi amici: pomeriggi sudati per conquistare anche solo un calciatore mancante. E grida e sbuffi e pacche sulle spalle e corse e imprecazioni e tutto il repertorio che fanno di un ragazzino di dieci anni un ragazzino di dieci anni.
Lei arrivava sempre sola, sempre dopo aver fatto i compiti naturalmente, e sempre con gli occhi bassi dietro gli occhiali.
Si sedeva composta sulla sua panchina. C'era una ritualità in quel sedersi, in quello scegliere sempre gli stessi posti, che valeva tanto per lei quanto per gli altri, che a buon diritto ormai ogni panchina aveva un legittimo proprietario.
Il suo posto era a una panca di distanza dalla combriccola delle figurine. Dalla combriccola dove c'era lui. Sulla panchina adiacente sarebbe stata troppo da sfacciata, o almeno così pensava sua madre. Ma due sarebbe stato troppo da sfigata, o almeno così pensava lei. E poi a quella distanza poteva ben guardare senza essere vista, mentre faceva finta di leggere. E poteva ascoltare la sua voce, di una tonalità così particolare da risaltare in mezzo alle altre.
“Ciao” diceva, un po' alla panchina ed un po' ai ragazzini.
“Ciao” le rispondevano distrattamente, senza alzare gli occhi dal gioco. Tranne lui che le rispondeva sempre uno o due secondi dopo gli altri, e la guardava sorridendo inclinando leggermente la testa. Quell'uno o due secondi di attesa erano forse il vero motivo per cui ogni pomeriggio scendeva lì al parco. Per quella meravigliosa e dolcissima paura e poi lo stupore, sempre uguale e sempre diverso, di sentire la sua voce echeggiare sopra le altre e solo per lei, valeva anche la pena di subire ogni tanto qualche presa in giro: in fondo lei era quella strana, era quella che leggeva.
Ma la città stava mutando e loro cambiarono con essa, come il vento ed il rumore del traffico. Come la voglia di stare per strada e di incontrarsi e di cercarsi. Cambiò come i sorrisi si mutarono in diffidenza e come inevitabilmente si diventa grandi. E quello che era un sempre divenne un poi, ed il poi divenne un forse.
Anni dopo, camminando per le strade vuote di una domenica pomeriggio, lei rientrò dopo molto tempo al parco.
Si avvicinò alla vasca e constatò, con una punta di divertito dispiacere che se anche tutta la città e la loro esistenza era cambiata, quell'acqua era rimasta identica a dieci anni prima.
Anche le panchine erano rimaste al loro posto; certo, avevano subito più di una mano di vernice ed ora il loro era ormai un colore indefinibile.
E fu ovviamente in quel parco che si rividero.
Lui se ne stava seduto da solo sulla sua panchina con lo sguardo affondato in un grosso libro. Lei arrivò, e pur senza averlo riconosciuto seppe immediatamente chi era.
Non si ricordava il nome, anzi forse non l'aveva mai saputo, ma non importava allora e non sarebbe importato neppure adesso, pensò.
Si sedette come faceva - qualcosa come un milione di anni prima - ad una panchina di distanza ed aspettò.
Lui alzò la testa dal libro e la riconobbe. Che a volte anche se il mondo intero cambia, certe cose non cambiano mai. Indossava sempre gli occhiali ma adesso teneva gli occhi alti e lo guardava sorridendo.
Fu lui il primo a parlare e, come allora, disse solo un ciao. La sua voce era sempre uguale, più profonda naturalmente, ma ancora di quella tonalità assolutamente particolare.
La ragazza non rispose, ma si alzò e si andò a sedere sullo spazio vuoto accanto a lui.
“Mia madre penserà che sono sfacciata, ma non fa nulla” e rise.
Lui non fu certo di capire ma gli sembrò giusto e naturale ridere con lei.
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