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Ippolito e Gabriele
Dalla pioggia raggiunse finalmente nella piazza in cui era la chiesa.
Correva. S’infilò sotto il porticato e guardò fuori. La pioggia era fitta e grigia e Basilea sembrava deserta.
Intorno non c'era un movimento.
Entrò, allora, veloce e intirizzito. Lo prese per quell'oscurità profonda dell'ingresso. Corse all'altare maggiore e i passi risuonavano sul pavimento di cotto.
Solo il centro dell'altare, un vaso di coccio slanciato pieno di girasoli, era illuminato pallidamente sulla tavola sobria dalla tovaglia bianca, ricamata lungo gli orli.
Rimase incantato, nella penombra.
Veniva lontano, un suono d'organo: l'organo immenso della cattedrale taceva. Forse, in sagrestia... Era una solitudine abbagliante, infinita.
Lateralmente si alzava un pulpito di terracotta scura, così finemente lavorato e leggero da sembrare scolpito nel legno. Una scala a chiocciola si arrampicava nel buio e in alto sbocciava il leggio, come un fiore bruno.
Condusse lo sguardo verso il pavimento e seguì i propri passi sulle mattonelle consumate, fino ai sarcofagi dentro le arcate, come nicchie aperte alle navate.
Giacevano giovani donne di pietra rosata ed enormi cavalieri levigati mollemente, nei tratti fatti quasi femminei. Sulle labbra, su tutte le labbra, alitava un sorriso.
Sorrise e accompagnò con le dita i contorni di un viso gelato e liscio, come di giovane creatura spirata.
E lo prendevano, confondendogli il motivo della sua visita, le iscrizioni gotiche in latino, presso le tombe, sotto le vetrate trasparenti arancio, giallo cupo e smorzati marroni.
Sedette, ai piedi di una madre di appena sedici anni che stringeva tra le sottili braccia di pietra un bambino perdutamente addormentato, con gli occhi al soffitto altissimo a travi secolari e stretto nella povera morsa dell'umidità.
Attese.
Per un istante poi lo spazio si riempì del canto sordo della pioggia sulla piazza, poi il brivido del portone massiccio accompagnò un nuovo silenzio.
Laggiù, il passo di una figuretta in ombra suonò incerto nella direzione.
Gabriele lo attese immobile, quasi nascosto da un pilastro, seduto sull'orlo del sarcofago.
Ippolito vagolava smarrito. "Gabriele..." soffiò. Le arcate sospinsero il nome.
L’amico si alzò e gli andò incontro.
Si trovarono a metà della navata laterale; lì si strinsero ambedue le mani.
Ippolito lo scrutava dal fondo di propri occhi chiari: "Ti ho fatto aspettare a lungo?"
"È piacevole, qui, aspettarti." Parlavano piano, le mani unite.
"Fuori piove molto..."
"Restiamo qui."
"No, qui non voglio." Si liberò dalla stretta dell'amico.
"Restiamo qui, finché è possibile, ti prego!" Gli riprese le mani.
Ippolito smise di guardarlo in viso. Serio chinò gli occhi al mattonato. L'organo aveva ripreso a vibrare.
Allora Gabriele sospinse l'amico lungo la parete della navata, verso l'altare e sottovoce gli indicava quelle meraviglie serene che lo avevano affascinato.
"Io devo rientrare presto, lo sai..." mormorò Ippolito;
Gabriele. sorridendo, gli sfiorò la guancia con un bacio. Compirono il giro della chiesa e Ippolito s’inginocchiò all'altare.
Improvvisamente, da tutte le vetrate, precipitò una luce densa, serale.
In silenzio raggiunsero l'uscita.
La pioggia riposava lampeggiando opaca sulla piazza, gocciando estrema dei tetti, dal portale.
"Si è aperto il cielo, ma è così tardi che il sole non lo rivedremo."
S’avviarono, solitari, nella luce vivida, attraverso i profumi della città bagnata. Giù verso il Reno, a camminare lungo gli argini.
Davvero non c'era alcuno per la strada e dalle finestre; nessuno e nessun suono, fino al respiro ombroso dell'acqua che si faceva più vicino.
Raggiunsero il fiume e aveva cominciato a piovere talmente sottile da far quasi piacere. Gabriele e Ippolito procedevano lenti sulla strada scivolosa, allacciati e silenziosi.
"Vorrei potermi sedere." disse Ippolito all'amico, ad un certo punto.
Gabriele gli sorrise, fissando uno sguardo cieco sulla tonaca scura che sapeva a memoria.
"Mi dispiace se sei stanco, vuoi che ci fermiamo?"
"Laggiù, sotto il prossimo ponte..."
Procedevano, allacciati e vagamente tristi, in un silenzio cupo, riempito solo dal Reno discreto.
Ed in silenzio presero correre quando, all'improvviso, scrosciò dal cielo un'acqua chiassosa e gelata. Gabriele trascinava l'amico impacciato dalla veste che si appesantiva sotto la sferza della pioggia.
Sotto il ponte era più buio, ma s’indovinavano ancora i lineamenti.
Ippolito, appoggiato al muro ricoperto di muschio; piangeva; col viso reclinato da un lato, le braccia a proteggere il petto dal freddo.
Nell'urlo della pioggia, contenuto dal riparo, sostavano i due l'uno di fronte all'altro.
"Perché?" Chiese Gabriele prendendolo per le spalle. E lo guardava in viso, addolorato e incredulo.
Il bel naso e la bocca sottile di don Ippolito tremavano, poi, dei brividi lo assalirono lungo tutto il corpo.
Piangeva, senza singhiozzi, dagli occhi grigi abbassati.
Gabriele gli scostava i capelli bagnati dalla fronte ripetendo la domanda, tanto dolcemente.
Ippolito teneva il capo rigido contro la spalla e il marmo scivoloso.
Gabriele, avvicinato il viso bagnato a quello dell'amico, cercò con la bocca la sua bocca e, accarezzandogli le tempie, lo baciò lungamente.
Intorno al ponte continuava a piovere e l'aria si faceva più bruna. Basilea, dalle due sponde del Reno, sembrava veramente abbandonata.
E deserta.
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