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Un sereno controllo
Santo cielo, stai tranquillo mi dico, è solo un controllo, tutta routine. Stai calmo, e se devi proprio fare qualcosa, per l'amor di dio, fallo molto lentamente. È sabato sera, quindi è normale che facciano dei controlli, e tu non hai bevuto, quindi respira, piano. La coca è ben nascosta sotto il mio sedile, non hanno cani, e quella stupida bastarda ora non urla e batte più dal bagagliaio.
Eccolo, arriva, a passi lenti, un po' grassottello. Nuvole bianche gli escono di bocca, come una locomotiva, e che cappello grande che ha. Il suo compagno, un tipo smilzo, tiene le mani sul mitra pronte a sparare, come se fossi un terrorista. Tiro giù il finestrino con la manopola, ghiacciata. Buona sera, mi dice, patente e libretto, prego. Mi tolgo la cintura, se avesse con se uno stetoscopio, penso, sentirebbe una marcia militare al posto del battito del mio cuore. Apro il vano porta oggetti davanti al sedile, tiro fuori il libretto. Mani perfettamente ferme glielo porgono. nte, go, come?, chiedo, e lui, scocciato, la patente, prego.
Ah si, certo. Nel frattempo, macchine sfrecciano vicino a noi e me li immagino, giovani, padri di famiglia, vecchietti, tutti a far finta di togliersi il sudore dalla fronte, a guardare lo sfigato di turno fermato dai carabinieri. Eccola, gli dico, tornato alla realtà. La prende e torna in macchina con il suo malloppo. Aprendo la portiera del conducente si accende la luce, non riesco a capire come faccia a passare per la porta con quel cappello così grande... Un vento freddo si intrufola dal finestrino, rabbrividisco. Tamburello sul volante, guardo in sequenza, pedali, smilzo, macchina. Parla con una ricetrasmittente, cerco di leggere il labiale, dice, criminale, dice, cocaina, dice, arrestare. Mi fermo, gli occhi e il cervello giocano brutti scherzi, poi è buio, non ci sono lampioni, come fa uno a leggere il labiale senza luce? E poi sarà ad al meno quattro metri da me! Rido, smetto subito, non possono vedermi ridere... o forse mi hanno già visto, magari il carabiniere con il mitra, stufatosi di guardare le macchine passare, ha posato l'occhio su di me, proprio mentre ridevo. Lo guardo, lui mi fissa, dopodiché torna a guardare le luci delle vetture che passano ed a esalare condensa. Il mitra sempre stretto tra quelle mani inguantate di nero. Torno ai pedali, un po' consumati mi dico, tappetino, sporco, da lavare, riprometto, sotto il mio sedile, coca, colombiana, roba buona, da portare a Verona. Sguardo in su, l'uomo ancora concentrato sulla ricetrasmittente, questa volta come un telefono, appoggiato all'orecchio, ascolta. Sarebbe facile, girare la chiave, la prima già inserita, e poi wromm, via. Idea scartata subito. Un altro venticello mi passa accanto, sul collo. Torno dal mio mondo. I fari illuminano il ciglio della strada, mille pietruzze e granelli di ghiaccio scintillano, illuminano anche metà corpo e mitra dell'agente delle forze dell'ordine. Quanto ci impiega a fare un controllo? Tamburello di nuovo. Fuori le stelle brillano, la luna va e viene. Improvviso movimento dalla macchina, esce il carabiniere, fa un cenno impercettibile allo smilzo, ma io l'ho visto. Il volante viene stretto dalle mie mani. Stai calmo, ripeto, ma da lontano, con l'eco. Si piega, ha bevuto? Mi chiede, faccio no, non ho bevuto. Bene, ecco la patente ed il libretto, buona serata, e guidi con prudenza. Si tocca il cappello che ora quasi entra dal finestrino. Grazie, rispondo. Prendo il portafoglio, metto via la patente. Vano portaoggetti aperto, libretto ficcato dentro, click, chiuso. Attacco la cintura, lui già in cammino, si gira e piegato chiede; ha detto qualcosa? Io? no. Dico. Ah, mi era sembrato avesse detto qualcosa. Arriva alla volante, intanto giro la chiave, ed eccomi di nuovo in strada. Guido accanto al guardrail, nel limite consentito, deciso già di fermarmi al prossimo autogrill. Devo meditare, calmarmi, e togliermi di testa quel dannato cappello. Quel dannato cappello troppo grande...
Toc toc, qualcuno bussa. Qualcuno mi guarda, attraverso il finestrino, mani a coppa. Con le dita fa, tutto ok? Col pollice rispondo, si, tutto apposto. La cintura penzola, come un serpente, selvaggio. La catturo, click, domata. Giro la chiave, il motore tossisce, poi si avvia. Lo sconosciuto se ne è andato, meglio, spero di essere stato convincente. Piccole cose si attaccano al parabrezza, sembrano granelli di coca. Aziono i tergicristalli e le cose spariscono. In autostrada un'altra volta, più calmo però. Supero pure dei camion. Canticchio. Al cartello verde che dice Verona, mi rilasso. La schiena si appoggia al sedile. È finita, penso, poi lei inizia a battere, di nuovo. Mugola, con il bavaglio, tutto inzuppato di saliva, immagino. Esco allo svincolo, non pago il pedaggio, ho il Telepass. Adesso singhiozza; dice, non respiro, credo. All'Arena, hanno detto. L'incontro è dentro l'Arena. Così sia. Dico. Parcheggio dove non posso, non mi importa. Tiro fuori la valigetta, non la apro, sapendo già cosa contiene. Esco, nevica di più. Nessuno in giro. Apro il bagagliaio, lei mi guarda, con odio, io sorrido, sei libera, dico, puoi andare. Non capisce. Dai, incalzo, non ho tutto il tempo del mondo. Finalmente comprende, l'aiuto ad alzarsi, libera da bavaglio e corda mi tira uno schiaffo, forte. Mulţzumesc, dice, Noroc Succes, dico, l'unica parola che conosco. L'attimo dopo corre, poi si ferma, vomita, infine riprende la corsa. Ia schelaiu tebe udaci, ripeto, più a me che a lei, stavolta nella mia lingua. Non sono preoccupato, lei non parlerà, è senza permesso di soggiorno, non conosce una parola di italiano, calma.
Svolta in un angolo, risucchiata dall'ombra, sparita. L'Arena si erge nel cielo, gonfio di nuvole. Tutto si imbianca, velocemente. Lascio delle impronte, misura 42, Nike. La valigetta passa più volte dalla mano destra a quella sinistra, pesa un quintale, dico, i fiocchi non rispondono. Entra dall'entrata principale, hanno detto, obbedisco. Qualcosa puzza, dentro il silenzio è troppo, pesante. Tutto bianco, senza orme. Non c'è nessuno. Pezzi bianchi ora scendono velocemente. Mi giro, eccoli, tre tizi, vapore esce dalle loro narici, fucili automatici alla mano, mi chiedono: sei quello dell'“affare”?. Alzo la valigetta, ora leggerissima. Tremo un po'. Bene, dice il più grosso, sigaretta tra le labbra. Daccela, muove le mani, prima che perda la pazienza. Dove sono i soldi, penso e dico. Risate. Prima la coca, poi i soldi, esortano, in coro. Non mi fido. Prendo tempo, dico, fatemeli almeno vedere. Mentre gli altri ridono io cerco un buco, un uscita di emergenza, niente. Tutto avvolto nella tormenta bianca. Da, da, dicono, aspetta lì. L'unica via, è davanti a me, da dove sono venuto. Me lo sento; sto per morire. Occhi chiusi. Penso a quel cappello, grande, sempre più grande, alla ragazza, prima un passaggio, poi la rivelazione del mio perché in Italia, infine bum, nel bagagliaio. Mia moglie a casa, a Boksitogorsk... Mi manca, tanto. Aspetta un figlio. Riapro gli occhi, mi puntano addosso le armi, pronti a sparare.
Blackout, ed esco dalla realtà. Braccio sinistro prende slancio. La valigetta vola, verso di loro. Confusione, corro, mi butto a pancia in giù, scivolo. Ahhh! Il mio naso! Urla, non so chi, neve dappertutto. Mi fermo in mezzo a loro, cercano la valigetta. Spingo i due, cadono, il terzo, mani sulla faccia. Sorrido, è quello grosso. Apro il cancello, via, fuori. Dietro la mia schiena, spari, Avtomat Kalašnikova obrazca 1947 goda recito, come un verso di poesia. Respiro corto, petto in fiamme. Torna la corrente, torno io. La macchina è li, sotto un lampione, quasi un angelo. Sono da lei, chiavi in mano. Dentro, parto. In autostrada.
Lo stesso posto di blocco, solo nel senso opposto, il mio. Mi fermano, di nuovo. Il maresciallo viene da me. Noi non ci siamo già visti? dice. Occhi sgranati, chiede: Qualcosa non va? Si, dico, come fa ad entrare in macchina con un cappello così grande?
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