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isla deaves (capitlo1)
( Voce policroma della terra)
Morto?. Non so?!
Stringo la mano a pugno.
Sabbia.
Calda sabbia.
Cristallina.
Ho le membra pesanti come ferro antico.
Le palpebre come finestre chiuse mai aperte.
Uno spirito fresco sollecita le mie pelurie salate,... un’alito di vento vagabondo, viaggiatore instancabile, mi sussurra incomprensibili storie. Un gran chiaccherone.
Lei mi risveglia con il garbo dei suoi profumi e il fresco rumore delle sue quiete onde.
Un piccolo granchio, suo servo devoto, pizzica le dita dei miei piedi.
Lei vuole la mia attenzione.
Ci tiene.
Un piccolo varano viene a saggiarmi con la sua lingua a “v”.
“Che vuoi da me? ” Le dico col pensiero.
“Te” lei risponde.. non so con che voce.
Il mio volto prova a sorridere di compiacimento.
“Dunque sono vivo? ”
“Non lascieresti la forma del tuo corpo sulle mie spiagge”
Ho un brivido.
“Chi sei? ”
Sento ridere in modo limpido come può ridere solo una donna, una splendida donna.
“Non essere sciocco... Tu lo sai bene! ”
È vero! Lo so bene.
Tutte le vicende hanno un inizio, questa ha avuto origine dalla viltà, la mia!
In Italia, gli anni Sessanta hanno portato energie spaventose, erosive come fiumare selvaggie.
L’impegno sociale e politico, forte impulso, come una nuova religione manichea, ha messo al rogo innumerevoli idoli individuali.
Il giovanilismo, nuova morale anti-morale, ha sconvolto per sempre il lineare sviluppo delle idee, negando la storia, confondendo l’oggi con il futuro, dividendo l’umanità in puer e xeno, la sindrome di Peter Pan come destino irriverente.
Benchè giovane, il mio “territorio” si era ridotto ad una zolla di solitudine.
Non riconoscevo più un mio possibile ruolo in quella nuova “Storia”.
Archeologo ed esperto d’Arte... Ridicolo... Ridicolo.
Per me solo un tragico non senso.
Alternativa?
La fuga!
Come un ratto al far della sera, sfidando la luce del giorno morente, avevo raggiunto l’aeroporto di Fiumicino.
Davanti ad una carta geografica nella sala viaggiatori avevo chiuso gli occhi e “buttato” il mio indice sinistro a caso.
“Venezuela”.
L’imbarco era di li a minuti...
Mezza giornata di volo ed ecco il luogo remoto.
Il caos di Caracas urtò con il mio desiderio di oblio e cercai di meglio.
Resistetti alla seduzione di Maracaibo, ma il nome della città di Cumanà colpì la mia immaginazione, o la mia superstizione, e leggendola priva di accento... Cumana... come la fatale “Sibilla”, la rese accogliente, in qualche modo domestica alla mia mente.
Vissi con ansia vigile il viaggio sulla carettera che corre in riva al caribe.
La città mi accolse con indifferenza.
Il mal di stomaco mi accompagnò nella scelta dell’alloggio, che trovai in un residence di fattura coloniale, la trascuratezza era tangibile in ogni ambiente.
Unico conforto, la vicinanza del mare.
Era ormai notte quando il portiere si era congedato chiudendosi la porta della stanza alle spalle, uscendo.
Silenzio.
Pervaso da brividi di disagio mi ero rifugiato in un angolo della camera, avevo atteso l’alba del nuovo giorno accucciato sul pavimento, il sonno pietoso aveva avuto la meglio sulla mia mente.
La notte più buia della mia vita.
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