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Ogni mattina in Africa

Tutti i giorni alle 11. 30 circa, dopo le visite nel mio reparto, mi recavo all'Outpatient Department, così erano chiamati gli ambulatori per i pazienti esterni.
L'edificio, ampio, costruito di recente, era situato a fianco dell'ingresso generale dell'Ospedale. Quando entravo, sempre di corsa, con il camice già indossato, immancabilmente in ritardo, davo una rapida occhiata alla sala dove sedevano, sulle file di panchine, numerosissimi pazienti, per rendermi conto di quanto sarei stato occupato lì quel giorno.
In fondo alla sala principale, sedevano ad un tavolo una suora Comboniana, infermiera, e un’infermiera Karimojong, intente ad interrogare i vari malati. Come in qualunque Pronto Soccorso moderno, queste due infermiere valutavano rapidamente la gravità dei casi arrivati, li registravano e preparavano una scheda d'ingresso ad ognuno di loro. Se la patologia riscontrata era banale e il paziente non appariva grave, seguendo precisi protocolli, somministravano dei farmaci e il paziente veniva quindi mandato via. Tutti gli altri passavano nel secondo corridoio dove erano disposti tre ambulatori medici, due per gli adulti e uno per i bambini.
Normalmente quando arrivavo io, nell'ambulatorio pediatrico era già al lavoro Giulietta, la pediatra, molto più puntuale di me. Aprivo la porta, la salutavo calorosamente e proseguivo nella seconda stanza dove mi attendevano i due infermieri del mio ambulatorio.
I malati che visitavo non perdevano certo tempo a spogliarsi, vestiti com’erano solamente di un telo e di una gonna, le donne, e di un mantello la maggior parte degli uomini. Si distendevano, apparentemente tranquilli, sul lettino dopo che avevo raccolto molte informazioni che l'infermiere mi traduceva in inglese. Li visitavo accuratamente, da capo a piedi, cercando di capire ed assegnare, infine, un nome al disturbo, malattia o sindrome che il bambino, la donna, la gravida o l'anziano presentavano.
Scrivevo tutto nella scheda medica, che ogni malato portava con sé, aggiungendo l'esito degli esami che, raramente però, richiedevo perché troppo costosi per la maggior parte di loro. Prescrivevo poi la terapia.
Non mi era facile decidere come somministrarla. La maggior parte di questi malati, infatti, si aspettava da me una o più iniezioni; diffidavano delle pastiglie, capsule e sciroppi che pur disgustosi, per la loro mentalità, non avevano assolutamente l'effetto della taumaturgica iniezione, che ricordava molto la terapia del loro stregone, solito incidere la pelle, anche più volte, in prossimità dell'organo dolente. Ai vecchi karimojong, che pretendevano sempre l'iniezione, avevo fatto preparare delle siringhe con fisiologica, che regolarmente iniettavo, dando loro, ovviamente, anche i farmaci opportuni, in compresse.
Avevo imparato bene a spiegarmi, utilizzando le braccia alzate che indicavano l'altezza del sole, per suggerire l'orario della somministrazione della terapia.
Ciò che ritenevo veramente utile nel mio lavoro, direi anzi indispensabile, era la scheda clinica. Quando la prendevo in mano e leggevo nei fogli, che il paziente aveva portato con sé da casa, tutte le visite precedenti e gli esami eseguiti e risalenti talvolta a diversi anni prima, guardavo quel paziente con riconoscenza e rimanevo meravigliato. Pensavo quanto in Italia fosse raro veder arrivare un paziente con una scheda clinica utile a ricostruire la sua storia. Purtroppo, non è molto cambiato anche al giorno d'oggi, nonostante il computer sia presente negli ambulatori di quasi tutti i medici.

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