Mio padre era un uomo di una volta. La vita gli scorreva con forza nelle vene, con l’impeto di chi ha attraversato l’Adige gelato e ha ballato nudo intorno alle fiamme del covone, perché il ghiaccio a volte è traditore. Di chi è caduto fra i vetri di fabbriche dismesse ed è stato per ore nella botte, in attesa delle folaghe con il fucile stretto fra le mani. Cresceva così nei campi e ai bordi del paese prima di andare a Venezia per studiare. Qui le porte delle case non si aprivano ai foresti, che se ne stavano fra loro, facendo di nascosto calchi sulle facciate delle chiese, o sbollendo gli ormoni con la voga nei canali, mentre Stanlio e Onlio spiegavano l’America e Hitler urlava senza tregua nei megafoni. Mio padre aveva i coglioni di chi ha marciato in montagna con quaranta chili in spalla e si è svegliato col sole e le bestemmie degli alpini, di chi ha segnato le croci sui commilitoni uccisi ed è fuggito dai tedeschi per salvare la pelle e la famiglia. Questo è solo l’inizio, poi c’è ancora tutto il resto, ma tanto basta a volte per farmi sentire strano. Come quando, teso fino allo spasmo, insofferente a ogni distrazione, attendo paziente per minuti, con il joy stick stretto fra le mani, che il nemico compaia nel campo del mirino.