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Gli orfanelli di casa Valle Serena

Non ero andata lì per un motivo particolare, nè avevo intenzione di turbare gli equilibri di una realtà che non era la mia, ma la mia esperienza con gli orfanelli di casa Valle Serena si rivelò per me un motivo per riflettere ed imparare.
Avevo sentito a lungo parlare di molte giovani ragazze come me che impegnavano il loro tempo in opere di volontariato, assistendo bambini, anziani, persone con problemi di salute ecc.
Tuttavia, se devo essere sincera non ne sentivo il bisogno, e quel che è più sorprendente non riuscivo in alcun modo a capire come così tante persone riuscissero a trarre beneficio spirituale passando il loro tempo con persone che soffrivano.
Detto così può sembrare una riflessione alquanto fredda, materialista e priva di sensibilità, ma più ci pensavo più mi convincevo della mia tesi: chi faceva del volontariato lo faceva per autoconvincersi di essere migliore; vedere che c'è chi sta peggio aiuta a convincersi di non essere poi così male.
In modo particolare, avevo sentito parlare dell'orfanotrofio di casa Valle Serena, gestito da alcune suore, e in cui molti ragazzi e ragazze passavano il loro tempo libero facendo compagnia a i bambini che vivevano nel periodo di tempo in cui attendevano con ansia di trovare una mamma e un papà.
Non avevo particolarmente voglia di interessarmi a queste faccende, ma alla fine pensai che non ci sarebbe stato nulla di sbagliato nell'andare lì e vedere di cosa si trattava.
C'era il sole la mattina in cui andai a fare visita all'istituto.
Ci voleva parecchio tempo per arrivare lì a piedi e le strade erano anche parecchio tortuose.
Arrivata lì fui molto colpita dall'aspetto che aveva quel palazzo: era molto ben curato, all'esterno c'era un giardino e le pareti erano dipinte di colori diversi. Appena entrata non c'erano bambini, e una signora mi fece notare che per raggiungerli avrei dovuto andare nell'ala opposta.
Entrai in una stanza e una delle proprietarie dell'orfanotrofio mi fece sedere su un divanetto insieme ad alcuni ragazzi che come me erano alla prima esperienza.
Lì poco dopo arrivarono una decina di bambini in fila indiana; qualcuno piangeva, qualcuno aveva la testa bassa perché non ci conosceva, altri invece trasudavano curiosità da tutti i pori.
In breve tutti gli altri ragazzi si avvicinarono ai bambini e cominciarono a parlare con loro, a tenerli in braccio e a presentarsi; avevano un modo di porsi così tranquillo, così sicuro io invece non avevo idea di ciò che dovevo fare.
Vidi una bimba stesa al mio fianco che non parlava e non giocava con gli altri. Doveva avere più o meno 3 anni, aveva i capelli castani chiari tagliati a caschetto negli occhi un senso di smarrimento.
La presi in braccio, e mi bastò guardare i suoi occhietti così piccoli e verdi per capire che il mio posto sarebbe stato lì.
Si chiamava Mariam, era stata abbandonata all'età di un anno perché i genitori non potevano più tenerla con loro, e le poche persone che erano riuscite a istaurare un rapporto con lei erano sempre per qualche motivo uscite dalla sua vita.

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6 commenti:

  • Anonimo il 01/05/2011 07:42
  • Claudio Amicucci il 25/02/2008 18:31
    A parte il tema toccante, dò atto a Luigi di aver centrato il commento. Brava, ciao Claudio
  • luigi deluca il 04/03/2007 20:26
    Non ero io ad aiutare i bambini, ma loro ad aiutare me!
    Solo per questa frase meriteresti un 10, brava,
    gigi

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