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La piazza

LA PIAZZA
Qui non ricorderò le piazze più famose del mondo come Piazza S. Pietro o Place de la Concorde; il ricordo che sovrasta la mia mente mi riporta, invece, ad una modesta piazza di paese: quella della mia giovinezza dove, ancora imberbe, ero solito sostarvi la domenica.
L'impero romano nel cuore, i trionfi e le sconfitte dell'Italia nella tasca, i sogni più belli da realizzare... eppure le generazioni passavano, segnando la loro presenza in quegli spazi sotto i filari delle querce viridi e compatte. Fiorivano i sogni e la giovinezza correva dietro le movenze delle giovani passanti; ed io ero inseguito dai dubbi e dalle incertezze dell'avvenire. Portavo con me le imprese di Achille, le peregrinazioni di Ulisse, i canti del Carducci e del D'Annunzio. Chi mi avrebbe detto appagato per la mie fragili speranze? Cominciavo, intanto, ad apprendere che il comando e il quanto gli uomini pregiano. E non altro. E allora commiseravo me stesso nutrito solo di belle favole. Sulla spianata, intorno al fiero monumento, passava la squadra degli avanguardisti: "Unò dué, unò dué, dietro front" ritmato dal burbero cadetto, fermo fuori rango. Sul marciapiede l'ambulante esponeva ai contadini filari di scarpe ciabattinate dai tacchi consunti, e più in là schierava a terra semiarruginiti arnesi della campagna: zappe, vanghe, rastrelli, falci, roncole, scure e quant'altro. Poco distante, appesa alla parete del campanile, gabbie con uccelli canori erano esposte all'attenzione ed alla vendita degli appassionati. Scendevano dall'androne del municipio, in servizio di stato, due carabinieri in alta uniforme, dai baffi neri. Io mi maceravo l'anima: cosa posso fare per ridurre la nullità di questa vita e darle un senso? Il monumento alla patria mi tirava sopra il suo vano piedistallo, e i militi dell'ordine, guardandomi con sospetto, mi facevano tremare. Mi domandavo ancora cosa occorresse per significare e per essere partecipe del presente. Nuotavo sull'onda delle illusioni; e, disperando, venivo a toccare il reale che niente era ancora per me. Pur nel bagliore dei falsi trionfi, presentivo che l'errore avrebbe fatto il suo corso. Dal maestoso campanile uno stuolo di colombi si staccava, allora, e sfrecciava nel cielo della piazza come se salutasse la mattinata domenicale e il sole che cominciava ad inondarla. La sacra messa era allora terminata e le fedeli, ancora avvolte nel velo nero e con in mano il libro delle preghiere, scendevano dal sagrato, siccome calpestassero un tappeto disteso davanti al tempio di Dio. Il loro volto sembrava illuminato dalla speranza, e dai loro occhi traspariva un sacro godimento. Alcune di esse mi guardavano e mi lanciavano delle occhiate di saluto. Le loro anime sembravano ristorate per le grazie promesse. Dei paesani, sostando all'ombra delle querci, attendevano i congiunti che uscivano dalla chiesa. Essi, poi, scrutavano il cielo per osservare le condizioni del tempo. Talvolta, dallo sbocco della strada principale sbucava di corsa un pianino a cilindro tirato da un uomo. Dietro il pianino c'era un giovanotto che con la mano sinistra lo spingeva e con la mano destra girava una manovella. Il pianino, lanciando qualche novità canora tra le mura della piazza, faceva sobbalzare il mio giovane cuore. In ritardo era il carro trainato dalla mucca di Giacinto col muso pendolante verso terra. Essa, con la nuca sotto il giogo, strisciato da una parte all'altra delle stanghe, tirava il carro col letame destinato a concimare il suo campo. Erano quelli tempi di attesa di giorni migliori che abbiamo poi conosciuti. E tu, piazza del mio paese, nella tua umile e semplice veste, mi hai conservato i vecchi ricordi e il tuo vetusto aspetto.

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2 commenti:

  • Gloria Folletto il 03/04/2010 22:13
    bello questo racconto, molto realistico, argomenta oggettivamente uno scorcio di vita della quotidianità reale...
  • Anonimo il 16/09/2009 13:25
    molto bella e ben scritta