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Quattromenodieci
Oramai la data era fissata. Quel pezzo di storia, sarebbe tornata polvere entro la fine del mese. Eretta più di cent' anni fa, era divenuta in poco tempo la stazione più importante della provincia. Una costruzione semplice, senza particolari abbellimenti stilistici, testimone del primo grande boom industriale della nostra Italia, e tra breve non avrebbe più fatto parte della realtà contemporanea. I suoi muri esterni prima perfettamente intonacati color ocra pallido, ora sembravano spellati a chiazze lasciando intravedere i mattoni rossi vividi impastati con la sabbia, forse di fiume. Sulla facciata, sopra l'ingresso principale, un enorme orologio tondo con i numeri romani a fare il girotondo e le grandi lancette ferme da un paio d'anni alle quattro meno dieci. Il portone che dava l'accesso all'interno era stato riverniciato forse una decina di anni fa e pareva, rispetto a tutto il resto, ancora in buono stato. Era chiuso, i suoi vetri ormai opacizzati dallo smog e dal tempo, lasciavano appena intravedere un "dentro"... molto fuori forma: un vano unico che comprendeva la sala d'aspetto a destra, e la biglietteria a sinistra. Nella sala d'attesa ancora tre file di poltroncine, alcune di esse senza schienale, e tutte sbiadite di un marrone ormai poco elegante.
Quante persone in procinto di partire calcarono quel pavimento. Gente che andava, o che arrivava, un andirivieni frenetico di borse, valigie, sguardi veloci a quell'orologio appeso a parete che ora non c'era più, paltò e soprabiti appoggiati agli schienali di quelle vecchie sedie magari solo per pochi minuti, e poi saliti su un treno diretto chissà dove... Quelle pareti, se avessero potuto parlare... Discorsi, dialoghi, frasi, pensieri felici sfociati in risate o pianti per quegli addii struggenti che solo le partenze col treno dispensano. Tutto questo era stato assorbito dalla stazione, era diventata un po' parte della famiglia di ogni viaggiatore che l'aveva attraversata.
La biglietteria era caratterizzata da un bancone in solido legno alto più di un metro e lungo forse tre. Su di esso poggiava la paratia in vetro con due fori tondi al centro e due intagli alla base, un po' come quelli dei vecchi uffici postali. Probabilmente nel periodo di maggior afflusso di viaggiatori, circa cinquant'anni fa quindi, la struttura così predisposta ospitava ben due file di persone in attesa di fare e timbrare il biglietto. Quanti gomiti furono appoggiati su quel bancone, in attesa di quel pezzetto di carta che dava accesso "al partire" per andare via, o per tornare. E ora era vuoto e polveroso. Dall'altra parte, ancora la sedia del bigliettaio, alta ma non di legno. In ferro. Era nel suo rugginoso silenzio ancora là... come se attendesse da più di dieci anni il suo trafelato arrivo. In quello stanzone enorme proprio di fronte all'ingresso, un'altra porta, a due ante, che dava sull'unico binario. Non ci si poteva certo sbagliare. Ora le stazioni moderne hanno anche venti binari, e si ha sempre un po' di timore di salire sul treno sbagliato. Qui non era mai successo. Eppure ne arrivavano tanti, nell'epoca in cui si lavorarava a pieno regime, si potevano contare addirittura dieci treni al giorno. Per un paese di provincia erano molti. Là di fuori ancora due panchine eleganti, in ferro con riccioli che parevano i boccoli di una bimba un po' trasandata. Appeso alla parete un braccio di ferro lungo circa mezzo metro teneva oramai da cent'anni un orologio tondo color verde acqua. Anche questo non funzionava più, e anche questo come quello sulla facciata segnava le quattro meno dieci. Coincidenza. Sul marciapiede adiacente al binario un palo alto poco più di tre metri su cui era fissato un cartello blu con l'indicazione del nome del paese. Aveva resistito alle intemperie e al tempo, ma della sua scritta originaria conservava solo qualche lettera sparsa: "S. L re z ". San Lorenzo. Appena sopra ad esso, sempre fissato al palo, un microfono che ricordava un megafono, con i fili elettrici scollegati e penzolanti da chissà quanto tempo. "San Lorenzo... stazione di S. Lorenzo... È in arrivo il treno proveniente da Ventimiglia e diretto a Genova... In carrozza..." Quante volte aveva gracchiato negli anni passati... E ora ammutolito attendeva solo il tragico epilogo. Proprio come le panchette con i boccoli, il bancone della biglietteria, le poltroncine poco eleganti, e i due orologi fermi alla stessa ora. Sul binario morto, giaceva un carretto su cui era fissata una scala in ferro forse adibita per opere di manutenzione. Passavano i giorni e il paese intero attendeva scalpitante la demolizione.
Un centro commerciale ultramoderno, con trenta negozi al suo interno, la farmacia, la sala giochi, la tabaccheria, e poi ristoranti, pizzerie, e persino un sexy shop, che gli anziani del paese, nel loro avulso vociferare chiamavano "sessi sciòc". Era questo quello che la giunta comunale, con il benestare della provincia, e i fondi della regione avevano progettato nell'area in disuso della vecchia stazione. La ferrovia era stata spostata più a valle, e non c'era più senso tenere ancora in piedi quel museo di storia pulsante... in una S. Lorenzo che voleva aprirsi al mondo del business.
Il giorno fatidico, eravamo tutti là, io per primo appoggiato ad una transenna, e intorno più di mille persone, cittadini del paese e non, venuti solo per vedere il caterpillar bombardare con la sua palla di piombo incatenata al suo braccio, l'inerme e quanto mai rassegnata stazione. La folla era festante, mi ricordava l'atroce felice crudezza di un pubblico davanti all'esecuzione di un impiccagione. Con quel brusìo nelle orecchie guardavo la mia stazione... eh si era stata seppur per poco anche la mia stazione... da lei ero partito per il servizio militare con la tristezza nel cuore e da lei ero tornato dodici mesi dopo con una immensa gioia.
Cominciava a piovere, ma la gente si era premunita, e in men che non si dica, si era assicurata al riparo degli ombrelli. Io mi ero tirato su il cappuccio della giacca, con gli occhi sempre fissi alla mia stazione. Mi dispiaceva. Tremendamente.
Poi all'improvviso il motore del caterpillar giallo sènape riempì di fumo e rumore il cielo piangente e zittì tutti.
Un ometto piccolo sulla quarantina scese dal bestione acceso e parlò per alcuni secondi con il primo cittadino. Mi dissi... figuriamoci se un po' di pioggia fermerà l'esecuzione... Infatti non fu così. Anzi la pioggia avrebbe evitato lo spargersi delle polveri durante l'attacco del feroce leone giallo sul bue anziano e malaticcio, fatto di mattoni rossi e sabbia.
Risalito ai comandi, l'ometto insipido, si diresse lentamente verso la sua vittima. Il suo pubblico aveva il fiato sospeso, come quando il domatore di un circo infila la testa dentro le fauci di un leone quasi sempre mezzo addormentato. Ecco si era posizionato.
L'omino diede uno sguardo ai suoi fans... e con un sorriso sarcastico schiacciò il pulsante che sganciava l'enorme catena con palla di piombo annessa. La sfera ferrosa colpì la parete destra, sbriciolandola come fosse polistirolo. Calcinacci volarono ovunque. Quando la polvere si diradò (velocemente grazie alla pioggia), si notava che le file delle poltroncine al suo interno si erano rovesciate, e il vetro della biglietteria si era frantumato in mille lacrime. Nel frattempo la gente esultava, tutta... tranne me.
Il primo colpo era stato incassato. Ne restavano ancora quattro forse, o cinque. Nell'attimo in cui l'omino si riposizionava con il suo giocattolone, notai una cosa che mi lasciò senza parole. L'orologio sulla facciata della stazione, aveva ripreso a funzionare. La lancetta dei secondi girava composta, lineare, impeccabile. Quando partì il secondo colpo, abbassai gli occhi per non vedere quello scempio, e lo sguardo mi cadde sul mio Citizen da polso. Erano le quattro meno dieci. Ed era fermo.
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