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Pino e la Stazione Centrale
Inevitabilmente anche quest'anno arriva natale. Fiocca la neve su Milano e sul duomo, fiocca il duomo in faccia alla gente, ma non temete non succederà niente. Niente di cosa? Niente di niente.
La protezione civile raccomanda, al ventidue di dicembre, di non mettersi in viaggio. Tragicamente il ventidue di dicembre non si può fare altro che viaggiare o apprestarsi a farlo, d'altronde è Natale. Rigorosamente Natale lo si passa con i propri rispettivi "tuoi", festa familiare per eccellenza, non come Pasqua pazzerella che la si passa con i "vuoi". Tragica la sorte del fattore che sia l'una che l'altra festa la passa con i buoi. Dal suo sguardo bovino si evince la contadina rassegnazione al maturar delle stagioni.
Si diceva? Ah si: i tuoi.
Se i tuoi sono lì, un lì limitato ad alcuni, molto pochi, che l'uso del plurale sembra già un'esagerazione, chilometri (districatevi pure), non è un problema, si può andare a piedi. Se il lì comincia ad allontanarsi, viaggiare diventa l'unica scelta possibile.
Pino la pensava così mentre leggeva sul tabelloni automatici della stazione, "ritrdo - delay": sessanta minuti.
Oh beh, pensava Pino, fortunatamente non ho nessuno che aspetta all'arrivo, non ho fretta, e Natale è fra tre giorni. Come posso non arrivare?
Il cartellone gli rispose lesto con una cascata di cifre che non faceva presagire nulla di buono. A Pino gli veniva in mente quando da bambino gli facevano estrarre i numeri della tombola, sempre a Natale tra l'altro, non si sapeva mai che numero poteva uscire. "La paura fa 90" pensò. "Tombola" gridò un signore distinto di mezza età dietro a lui, quasi schizzando fuori dal basto che lo legava al suo trollei, mentre volava verso il binario tredici. Dunque, binario tredici, Milano -Palermo, 200 minuti di ritardo. Il tabellone aveva dato il suo responso, Pino cercava la sua sorte fra le ultime caselle in movimento: ritardo-delay: ottanta minuti. "La vacca di tua madre vacca": Pino fu convito che tutta la folla dietro a lui sussurrasse questo, ma probabilmente era un effetto del freddo. Si incamminò verso qualcosa di interessante da vedere per l'ora e venti che andava ad incominciare.
Si allontanò nella folla rumoreggiante sentendo, in un magma indistinto di voci, le seguenti parole: 'ttanatroia, ilministrodovrebbefarequalcosa, se va avanti così... non per criticare ma quando c'era lui, non per criticare ma questo agosto... ti lascio... tutto per andare da quella troia di tua madre... ti lascio... papà ho fame, papà ho freddo, papà pipi, papà pupu, le vorrei raccontare di quella volta che restai bloccato a Bressanone un'intera notte, non le dispiace se mi tocco i coglioni, ho freddo, hai ventimila euro di pelliccia..., 'puttanavaccatroiaimpestataladracagnaimpestata, Roberto... guarda se quello col carrello bagagli deve passare proprio di qua, l'organizzazione, bisognerebbe protestare, banda di delinquenti, i finocchi del frecciarossa stanno al caldo, saranno duomi che noi non saremo, per questi dieci centimetri di neve... Mario, etc.
Uscito dalla ressa il magma si fece ancora più indistinto, era un'eco di magma di voci, un ricordo di un'eco di magma di voci, il sogno di un ricordo di un'eco di magma di voci, un casino indistinto.
Poi più chiaramente: "Questa è casa mia" un urlo tra la folla "lo vede" chiedeva l'uomo distinto ad un giapponese che lo guardava esattamente come, a metà pomeriggio, aveva guardato il duomo (quello fisso non quello volante), "è scritto qui" e indicava una scritta nel cemento "questa è casa mia".
Un crocerossino guardava la scena a fianco a me: "Ho visto una cosa simile nell'ottantaquattro"disse "l'anno del nevone, quasi come quello di felliniana memoria. Un signore, si seppe poi equilibrato e rispettabile, aspettava il treno per Novi Ligure, dopo 1276 minuti di ritardo segnalati dal tabellone il treno fu soppresso perché non c'erano rimasti più passeggeri da caricare tranne lui. Adesso dorme su quella panchina laggiù. La moglie passa a Natale a portagli un panettone ma lui non la riconosce." Il crocerossino svuotò la pipa col tacco e si pulì il monocolo con una pelle di daino immonda. Il giapponese fece una foto e si mise in coda per poter ammirare i lavori di ristrutturazione dell'ala ovest della stazione, ultima tappa del suo tour italico. Pino prese i tapis roulant che portavano al piano inferiore. "Cazzo!" pensò.
Le luci al neon e i favolosi festoni di Natale della buona vecchia stazione Centrale facevano sberluccicare ogni eroica pelata che nuda lottava col gelido inverno che da ogni porta prorompeva. Le dame ammantate di animali morti o di peli di animali ancora forse vivi, crudi o cotti, camminavano veloci negli atri e sulle pensiline per giungere anch'esse davanti al tabellone che le avrebbe fermate, come statue di marmo peloso, a contemplare il loro infausto destino e meditare sul peso delle proprie colpe.
I cingalesi, incuranti del freddo, della fame, della neve, della polizia, dell'esercito, degli insulti, del fatto che vendono un prodotto scadente, delle rimodernazioni della stazione centrale che li ha messi in concorrenza con altri esercizi ben più attraenti, dei leghisti, verdi di rabbia per la paura di ogni cosa, pronti a sparare contro ogni singolo fiocco di neve extracomunitario che osasse posarsi sul sacro suolo panpadanico, della fretta che contraddistingue sempre quel flusso umano che dalla metropolitana o dalla piazza si riversa dentro la stazione centrale, fretta del tutto ingiustificata perché a tutti toccherà la medesima sorte, l'attesa, dei neofascisti che di notte li inseguono con il bastone e non sembrano mai ben intenzionati, dei City Angles vestiti di rosso col cappellino blu e gli anfibi, che inquietano come gli squadroni della morte del già fu dittatore Pinochet, che ebbe il suo giorno di gloria in quella lontana fine estate del '73, quando Jim Morrison era già morto, i Beatles erano sciolti, e il mondo cominciava la dolorosa china della crisi petrolifera più profonda di cui si avesse memoria, vendono i loro elicotterini telecomandati e improbabili fantocci su biciclette a pile.
Pino uscì in strada, al freddo, alla ricerca di una morale che gli permettesse di chiudere degnamente la giornata. Si avviò lungo la via delle puttane per monitorare come il business della prostituzione si sposasse con il business della neve. La via delle puttane è anche piuttosto piena di alberghi in quanto, da che mondo è mondo e da quando al mondo c'è il mestiere di puttana, secondo la scienza popolare da prima del mestiere di Re o primo ministro, essa ha bisogno di un'alcova, mobile o immobile, dove esercitare la sua arte. La prossimità dell'alcova diventa poi un fattore strategico del business perché il cliente, o più semplicemente il puttaniere, da non confondere con il "paniere" pur avendo la stessa propensione a raccontare menzogne, quest'ultimo elaborato dall'ISTAT, figura mitologica a sei teste contanti, potrebbe non farcela a raggiungere un'alcova distante e ungersi del suo stesso brodo di passione, disdicevole per il puttaniere, ma drammaticamente non monetizzabile da parte della professionista in questione.
Dalla via delle puttane, di cui Pino ignora il nome, non ci era mai stato prima, lo giura, lo giura, lo giura, era passato alla strada che da piazza Repubblica, fermata Repubblica della MM3, arriva in stazione centrale, fermata S. T. Centrale per la MM3 e MM2, ritornando verso la stazione. Di puttane neanche l'orma, solo un padre che sul portone di casa veniva insultato da un figlio adolescente, mentre madre e figlia perdevano ormai ogni forma di attrazione sessuale l'una e rispetto l'altra verso il patriarca che certamente, di lì a capodanno, si sarebbe tolto la vita, non prima di aver affogato quella troia di sua moglie, che si scopa il commercialista Lanzetti, e quei fenomeni dei figli, perché niente del suo seme indegno andasse a inquinare il modo. Nel mentre Lanzetti, dalle parti di San Babila, fermata San Babila MM1, meditava su che regalo fare alla sua segretaria, non per ricompensa, no giammai, ma come segno del profondo rispetto per i vertici da lei raggiunti nell'arte della fellatio.
Al freddo e al gelo, senza nemmeno una grotta e un cazzutissimo asinello e nemmeno un bove scorreggione, un capannello di extracomunitari aspetta davanti ad un'agenzia per il lavoro temporaneo. Colleghi precari, pensa Pino, che non si cura di loro ma guarda e passa, mentre la sensazione di magma babelico si ricostruisce nella sua mente questa volta senza nessuna speranza di comprensione della più piccola sillaba. La stazione non si è mossa, il tabellone si. Un'altra cascata di lettere e numeri, a cui Pino non ha avuto la fortuna di assistere, ha portato il "ritardo-delay" a quota cento. Alcuni inneggiano al sacro numero tondo con litanie di zanicchiana memoria, in quella che fu forse la trasmissione di rilancio dell'Aquila di Ligonchio, ridente cittadina emiliana placidamente adagiata sulla catena appenninica la dove questa comincia o termina a seconda di come si guardi la cosa. Trasmissione che si rileverà poi di fondamentale importanza sia per la politica italiana che per le sorti del calderone multiculturale, vagiticamente denominato UE, permettendo alla rapace presentatrice e cantante, una sfolgorante carriera nelle istituzioni italiane che europee.
Il numero cento ha donato nuova consapevolezza al popolino del tabellone che guidato da un'eroica novantenne, ma forse l'età va riconsiderata, magari alla luce di nuovi approfondimenti fisionomici, sfonda e invade la sala dei frecciarossini che lamentosi protestano il fatto che il loro comfort se lo sono pagati "mentre il popolino arraffa". Pino, che di suo comincia ad avere una punta di freddo sotto le unghie dei piedi, segue il popolino e si piazza a invaporire una vetrata dell'acquario termicamente regolato dove risiedono i frecciarossini ruttando il Crispy McBacon che gli ribolle in pancia. A Pino viene in mente che siccome non avevano il pane, il popolino del tabellone si è preso la brioche, se adesso passasse anche un cappuccino a confessare il cerchio sarebbe finalmente chiuso e ognuno potrebbe fare merenda e credere di essere nel migliore dei mondi possibili. Chiusa parentesi francese.
Ora Pino è attratto dalle labbra tumide di una ragazza senza età, dall'equilibrio di cui le fattezze del volto di lei sono crisma, dalla meravigliosa profondità dei suoi occhi nocciola. Pino ripensa a Lanzetti e alla sua segretaria. "Chissa?" si chiede. Poi pensa anche al figuro, per cui non trova miglior parola per definirlo se non "brutto", che gli fa da stuoino a lei, adagiati come sono entrambi su una poltrona dal design Friulano. Tacitamente Pino bestemmia, non per gelosia, ne contro i due amanti, che dio li conservi felici per tutto il tempo che loro aggrada, ma per la disarmonia che coglie nell'universo e, più particolarmente, nell'umanità. Alla fine si convince che comunque "c'ha il suo bello" e tira fuori dalla tasca un libello leggero in cui si tuffa.
D'improvviso, trambusto nella sala, popolino che s'affolla verso l'uscita, i frecciarossini esultano moderatamente come conviene al loro rango( putann'troia van fuori dal cazzo 'sti morti di fame di merda) scuotendo il Rolex modello marrakesh, Pino guarda il surrogato del tabellone rivolto verso la sua vetrata: binario 10, perdio, binario 10. Pino si muove in pace con il mondo.
Il binario dieci sta alle spalle del tabellone principale, la madre di tutte le tabelle ferroviarie del nord Italia, leggende narrano che quella di Roma termini sia grande settanta volte tanto e che non stia mai ferma, sia una continua cascata di numeri e lettere, una sorta di luogo non luogo dove il tempo, lo spazio e la direzione perdono significato, un luogo dove è possibile rifarsi una vita, dove alle volte è inevitabile rifarsi una vita, nella ricerca di un orario di partenza e un destinazione di arrivo.
Dicevamo? Ah si, binario dieci, dietro il tabellone, venti e rotti binari tutti in ritardo, un unico punto di informazione: il tabellone. Un treno che scarica i superstiti di una tratta Mestre-Milano di cui parleranno le leggende ferroviarie per i prossimi cinquant'anni, un treno intero che aspetta da 100 minuti e che vuole salire, ora, tutti dietro il tabellone. Ripeto, tutti dietro il tabellone.
L'incazzatura in luoghi del genere perde il suo status di disposizione dell'animo o della mente, e diventa corposa, contagiosa, un blob dove la gente transita incazzandosi e incazzandosi fa incazzare quelli che stazionano, che faranno incazzare quelli che transiteranno. Circoli viziosi che se non sciolti da improvvisi scoppi di lacrime e defezioni per la cancellazione dell'uno o dell'altro convoglio, porterebbero alla sicura implosione della struttura metallica che, meraviglia d'ingegneria ed estetica, ricopre la stazione. Pino ci entra con la buona volontà di un bonzo vietnamita, pronto ad ardere immobile, senza trasudare nemmeno una goccia di emozione, non sa che là lo attende la bestia nera di ogni ingorgo di stazione, di ogni banchina capolinea e fine corsa. Come il Kurz di conradiana memoria esso ti attende alla fine del viaggio, ma l'inquietudine della sua presenza ti accompagna e cresce durante tutto il tragitto sul fiume di ferro e traversine su cui naviga il treno, lui, il trollei. Il trollei che ti colpisce negli stinchi, alla coscia che ti leva le scarpe, il trollei che si ribalta, il trollei che se il padrone è fermo diventa come la sbarra di Checkpoint Charley, la divisione di due stati del sociale, colui che si muove verso il treno che deve prendere, e colui che accumula ritardo verso il treno che deve prendere, che potrebbe essere il ritardo definitivo, il ritardo assoluto, il ritardo che discrimina successo e fallimento di una vita intera. Il trollei nulla sa. Egli, bovino, impera fra le gambe dei viaggiatori. Alcuni pensano che abbia un'anima e un'intelligenza, malvagie naturalmente, demoniache, rissose, inquietanti. Quanti calci proibiti alla gamba per non innestare reazioni a catena nel non luogo, quanti pestoni frenati prima di vedere il trollei sbattere la sua lunga maniglia a terra, quanti?
Pino arriva quasi in lacrime all'imbocco della banchina, vuole uccidere la ragazza che gli sta di fianco un po' dietro, continua a spingere lo zaino e Pino deve ruotare il busto, non può spostare il piede per cercare equilibrio: davanti a lui c'è un trollei. Poi il muro di gomma, gli zombi appena scesi, immobili, inamovibili, col cellulare in mano: "Sono a Milano, si, cosa prendo? La gialla? La gialla in che senso scusa? Ah, nel senso di metropolitana". Le bestemmie sibilano fra i piedi e i trollei e si perdono all'orizzonte in direzione della ricca Brianza.
Pino passa l'imbocco della banchina con una vecchia tecnica punibile con sanzioni dai dieci ai mille euro, che fa una certa differenza direi, scendendo dalla banchina sul binario, incurante del regionale in arrivo. Risale dove la banchina si fa più placida, come un fiume dopo le rapide, controlla il biglietto carrozza 4 posto 75, "è fatta" pensa, si avvia deciso, c'è da farsi quasi tutto il treno, ma ormai il treno è li, lo può toccare quando vuole, è lì.
"Carrozza 4 inagibile per malfunzionamento dell'impianto elettrico" Pino legge il cartello. Il cartello è attaccato sulla porta della carrozza 4. A Pino cadono d'un colpo le braccia, le palle, il morale, la sigaretta proveniente dal pacchetto di MS da venti comprato dopo aver appurato che qualsiasi in tutta la Milan Grand Station non esistono pacchetti di sigarette da dieci, dopo aver rotto i ciglioni per quattro lunghi mesi agli amici dicendo che se non comprava le sigarette fumava molto meno e quindi preferiva andare a scrocco, naturalmente gli amici non avevano gradito questa sua scelta di vita.
Ma Pino è fatto di marmo e cemento armato, recupera tutto quello che gli è caduto, sigaretta compresa, incurante di sputi di italiani, neri e leghisti che immondano il selciato, delle milioni di scarpe che hanno trasmesso lo sporco di innumerevoli città su quell'angolo di banchina, dei resti dei ferodi dei treni, della polvere, della neve, del ragazzone cicciotello con la barba che gli dice che "adesso ce la facciamo aprire", con una determinazione che a Pino sembra quella di un gelato sotto il sole a ferragosto e la falsa baldanza del pesce palla quando si caga sotto perché quello che fa il Sushi sa dove andare a tagliare, se la infila in bocca e aspira feroce mentre con lo sguardo cerca il cielo, tra le travature in ferro del soffitto, figlie dell'intuizione di non so chi, e della grande promozione dell'ing Eiffel che in quella mirabolante esposizione universale che fu Parigi 1889, a 100 anni dalla rivoluzione delle rivoluzioni, tutt'altra cosa rispetto a Milano 2015 a 21 anni da quella involuzione che furono le elezioni italiane del 1994, come se all'epoca si potesse veramente pensare di finire peggio, costruì la Tour Eiffel, e lo trova in un angolo della travatura, e in quell'angolo identifica la figura di dio, sulla cui esistenza nutre dubbi feroci che lo stanno portando verso un agnosticismo profondo, e verso quell'angolo bestemmia. Senza urlare, senza sussurrare o bisbigliare, come parlano gli uomini quando vogliono essere ascoltati, con voce seria, profonda, affascinate: "diocane" dice, protestando con queste parole tutta la sua impotenza, poi salì sulla carrozza cinque, si sedette temendo di perdere il posto non prenotato e aspettò di partire.
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