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Primo romanzo
Il pomeriggio d'autunno mi imponeva di camminare a testa alta; lo sguardo spaziava tra gli alberi multicolori, mentre il vento strappava ai rami le stanche foglie gialle e rosse che, volteggiando come piccoli ballerini, andavano a depositarsi sull'asfalto grigiastro. Pensieri bambini affollavano la mente accavallandosi: se mai avessi dovuto rinunciare ad uno dei cinque sensi, di certo non avrei scelto la vista. I colori erano da sempre ciò che di più bello potevo immaginare e camminando con gli occhi che si beavano di quel vorticoso movimento rosso e giallo, nel cielo di nastri nuvolosi e azzurro intenso, mi chiedevo come un cieco li immaginasse. A intervalli regolari, me lo chiedevo da molto tempo, da molto prima che piccole rughe persistenti e odiose avessero segnato i confini del mio viso irregolare e tragico.
Nell'occhio entra la luce, l'immagine e il colore. E sarà il cervello, mi dicevo, che lo percepisce, probabilmente in una tonalità che varia da individuo a individuo, nel senso che io, M., vedo un rosso e un giallo che non è quello che vede C. guardando le stesse foglie. Ma un cieco dalla nascita, che conosce solo il nero, come farà a pensare un giallo e un rosso?
Avevo un senso di disagio crescente al protrarsi di queste riflessioni che continuavano anche se io non le tolleravo. Così, decisi di affrettare il passo, lungo quella strada conosciuta e sempre uguale, che ho visto mutare nel corso delle stagioni, un numero infinito e sempre finito di volte.
Ventuno minuti di percorso: il ritmo di una passeggiata, qualche volta ignara di lettura intensa. Non amavo l'auto pur considerandola una necessità, e non amavo le persone, perché pensavo fossero una minaccia per il mio già traballante equilibrio interiore. Perciò camminavo spesso a testa bassa o a testa alta, quando non leggevo. Dovevo avere un aspetto terribilmente inadeguato - me lo dicevo spesso - visto dall'esterno; ma la mia incolumità spirituale valeva l'atteggiamento estraneo che era ormai diventato abitudine nel mio itinerario quotidiano.
Quarantadue minuti. Andata e ritorno: casa-lavoro, lavoro-casa. Ore otto del mattino: chiudevo il portone della mia piccola abitazione col tetto piuttosto spiovente e nero e scendevo i cinque scalini che mi separavano dal selciato lentamente, ricontandoli ogni volta, come se nella notte qualcuno ne avesse sottratto uno o due, derubandomi di qualche scheggia di placida abitudine. Tranquillizzato dai conti che tornavano sempre, percorrevo il marciapiedi a velocità moderata riempiendo gli spazi di pavimento grigio e rossiccio con passi cadenzati, quasi identici, da un albero all'altro: alberi nudi, alberi verdi, alberi rosa, alberi gialli.
A volte gli alberi scomparivano dietro al mio ombrello, quando il grigio del cielo faceva tutt'uno con l'asfalto. E dopo ventuno minuti, mi ritrovavo dinanzi alla biblioteca: la mia vera casa, forse. Lavoravo lì da ventidue anni ed era un lavoro che mi piaceva e mi appassionava. Quanti possono vantarsi di questo oggi? Ed ero lieto che il lavoro preservasse in maniera certosina la mia personalità misantropica e asociale. Dopo tutto, i libri mi nutrivano e mi proteggevano regalandomi la vita senza la drammatica tangibilità minacciosa del reale. Ero salvo e solo. E quel regno mi apparteneva, ne conoscevo ogni angolo, ogni scaffale, ogni volume. Era il mio orgoglio.
La biblioteca era di pianta ellittica, dotata di un lucernario centrale di dimensioni ragguardevoli, che raccoglieva una consistente quantità di luce e le eleganti scaffalature erano tutte in legno di noce. Un ballatoio separava la parte inferiore da quella superiore. Anche gli antichi tavoli della vasta sala di lettura erano in noce. Il silenzio e il raccoglimento erano gli dei di quel santuario quanto l'imponenza del legno, che custodiva con sapienza trentamila volumi, alcuni antichissimi e preziosi. Una prima edizione Aldina illustrata del 1515 di Dante Alighieri, un trattato di Cesare Lombroso dal titolo: "La perizia psichiatrico-legale coi metodi per eseguirla e la casistica penale classificata antropologicamente. Con l'aggiunta di un glossario d'antropologia criminale", del 1905 in edizione originale. Una rara copia di: " Le bische e il giuoco d'azzardo a Venezia (1172-1807)" del 1903 di Aldo Manunzio;un opera di Gilpin Richard: "Daemonologia sacra. Or, a treatise of satans temptations: in three parts", edito a Londra nel 1677. Un opera di Zinianni Giuseppe: "Delle uova e dei nidi degli uccelli... Aggiunte in fine alcune osservazioni, con una dissertazione sopra varie spezie di cavallette" del 1737. Un prezioso manoscritto che poco mi si attagliava di Thomas Benzonius il: " Tractatus moralis de matrimonio" del 1648.
Vi era anche molto altro che per non tediare alcuno, non ricorderò. I libri antichi, però, non esercitavano grande attrazione sulla mia fervida ansia di lettura. Erano piuttosto i miei sensi a godere delle tracce evidenti del tempo: il tocco del cuoio consunto, le lettere in oro o porpora, le pagine lise e talvolta scolorite, le macchie giallastre di umido e mani, il loro odore antico, mi portavano lontano immaginando i molti occhi che avevano osservato il testo e lo avevano letto, un tempo lontano che distingueva me da tutti gli storici lettori che mi avevano preceduto.
Preferivo le letture intense dei saggi - che per i più sono noiosi e troppo impegnativi - ancor più se filosofici e politici. Anzi, a pensarci bene, non avevo mai letto romanzi o racconti o poesie e non perché ne avessi repulsione, ma semplicemente perché la biblioteca non ne possedeva. Trascorrevo il tempo senza che esso mi turbasse, in maniera quasi dissociata dalle ore, e solo per via del calare brusco della luminosità diurna, mi accorgevo che era giunto il momento di tornare a casa. Nessuno o quasi turbava le mie letture, giacché nella modesta cittadina in cui vivevo, sembrava che non si sentisse alcuna necessità di leggere o quantomeno di leggere i "miei" libri, che ormai tali li consideravo.
Eppure in un giorno confuso, tra tutti quei giorni uguali, si presentò uno straniero, anzi, per essere precisi, una straniera.
Quell'evento avrebbe emozionato chiunque se non si fosse manifestato ad un uomo dalla rara inettitudine sentimentale.
Era l'imbrunire, questo lo ricordo distintamente perché mi ero alzato da uno dei tavoli vuoti solo per un attimo ad accendere i lampadari e riprendere l'interessante lettura di un piccolo libro dal titolo: "Grammatica della moltitudine". Con un certo disappunto mi ero affacciato all'ingresso per capire chi avesse fatto suonare il campanello di entrata e mi ero quasi scontrato con un'estranea indesiderata, che non avendo trovato nessuno, aveva pensato bene di avanzare intrepidamente alla sala di lettura del santuario, senza neppure sfilarsi le scarpe!
*****
Il vecchio appartamento all'ultimo piano dell'antico, elegante palazzo, era immerso nel silenzio.
La persiana filtrava la luce bluastra di un cartellone pubblicitario che attenuava l'oscurità della camera da letto, nella quale, escluso il letto immacolato e immobile, tutto era confusione e lerciume.
La signorina Carla stava distesa al centro di quel letto e, quasi impercettibile alla vista, dormiva il suo sonno profondo.
Un ritmo regolare e vagamente sibilante ne scandiva il respiro che sollevava lieve, il bianco copriletto rilucente dei riflessi blu dell'insegna. Intorno, un pesante strato di polvere e briciole, scarpe, fogli, cicche di sigarette, indumenti sporchi, libri, riviste e giornali ovunque.
A breve distanza dal letto, un tavolino in legno scuro, laccato, perfettamente pulito, su cui era esposta una piccola anfora, di fattura raffinatissima, vecchia di un paio di migliaio di anni: il ricordo di un antico amore.
Carla era una donna sola, che da poco aveva compiuto quarantacinque anni. Viveva in quell'appartamento raffinato, ereditato dai suoi genitori purtroppo morti anzitempo, curando solo la sua igiene, il suo letto e il piccolo tavolo col suo prezioso pezzo archeologico.
Ogni mattino, si consegnava indolente alle stesse consuetudini, osservando nello specchio, mentre si lavava, le nuove rughe che nessuno notava, eccetto lei. Le ripetizioni la tranquillizzavano e le davano sicurezza. Indossava abiti sempre uguali, che ne preservavano l'anonimato. E per strada non alzava mai lo sguardo per incontrare quello estraneo dei passanti che incrociava indaffarati ogni mattina, recandosi al lavoro. L'amore l'aveva ferita molti anni prima. Il tradimento dell'uomo di cui si fidava e che avrebbe sposato, la aveva lasciata inerme, ma decisa a non concedersi più divagazioni sentimentali di rilievo. Tutto poteva esistere e scorrere senza l'obbligo di una presenza maschile. Il mondo era molto più di questo, si ripeteva, quando la femminilità si affacciava alla sua lucida mente acuta e perspicace. Tonnellate di negatività tornavano a seppellire il sempre più debole istinto riproduttivo e il desiderio di sprofondare il capo in un caldo abbraccio cui arrendersi incondizionatamente. Non era nata per queste romanticherie classicheggianti. E poi, anche il lavoro, che svolgeva meticolosamente e coscienziosamente, non le lasciava tempo residuo. Era impiegata in una ditta di pulizie e i suoi orari erano strani. Albe, notti, primi pomeriggi, giorni festivi: momenti in cui quegli appartamenti, quegli edifici eccedenti umanità convulsa nelle ore lavorative, rimanevano silenziosi e assenti. Carla spazzava pavimenti, lucidava scrivanie, puliva schermi e tastiere, buttava carte e quasi sempre si soffermava a indovinare che tipi fossero gli occupanti degli uffici nei quali andava regolarmente. In particolare, le piaceva osservare le tracce personali che ciascuno lasciava sul posto di lavoro. Col tempo tutti cedono all'impulso di lasciare una traccia di sé: un pupazzetto, una foto, una piantina grassa, una cartolina, un adesivo, un poster, un portapenne, un libro. E lei era diventata bravissima nel rintracciare anche i profumi di chi lavorava in quelle camere che puliva con accortezza e rapidità. Ma in un tardo pomeriggio autunnale, aveva perso il solito bus e spaesata si era messa a vagare con un senso di lieve inquietudine. Mentre riconquistava la strada di casa lungo vie semisconosciute, si fermò per caso di fronte ad un antico, imponente edificio nel quale, senza un preciso motivo, non era mai entrata: la biblioteca cittadina. Aveva sentito parlare di quel posto che si diceva ospitasse testi molto antichi e pregiati, ma Carla, che amava la lettura in solitudine di romanzi e racconti, non era del parere che lì potesse trovare alcunché di attraente. Non avendo altro da fare, come sempre dopo il lavoro, decise, come assecondando un atto innovativo, di entrare.
Il campanello suonò, mentre avanzava circospetta. Sembrava quasi non ci fosse nessuno dentro, quando udì dei passi rapidi e decisi. Non fece in tempo a realizzarne il ritmo che si ritrovò faccia a faccia con uno sconosciuto di mezza età, alto, assai magro, dagli occhi scuri e profondi e i tratti somatici irregolari ma armonici nel loro incongruo assemblaggio. Carla aveva un modo tutto personale di capire in un attimo chi avesse di fronte. Aveva tra gli occhi e la mente un legame che istantaneamente le lasciava leggere oltre all'aspetto, anche l'umore e le propensioni di chi si soffermava ad osservare. Il signor M. non la guardò neppure invece, anzi, sembrò infastidito. Le diede un benvenuto di semplice circostanza, le mostrò a distanza dove si trovasse il catalogo dei testi presenti e le offrì il posto più lontano da quello in cui lui sedeva abitualmente.
Lei, quasi annusò la solitudine e la misantropia di quell'uomo, e ne rimase incantata. Era come guardarsi in uno specchio. E, sapendo bene che quella refrattarietà altro non era che paura, non si offese e si allontanò alla ricerca del catalogo che le era stato bruscamente indicato. Lo prese fra le mani e si accomodò in una delle magnifiche ma scomode sedie di legno. Lo aprì con aria solenne, sul grande tavolo vuoto alla fine dell'enorme sala, e lentamente cominciò a consultarlo. Il tempo trascorse mentre quel luogo sembrava cancellarlo.
Quello che principiò come un gioco di casualità diventò un'abitudine: al termine del lavoro che svolgeva nelle prime ore pomeridiane, in modo da essere libera fino a sera, Carla entrava nella biblioteca dimenticando ciò che non le piaceva del mondo, o meglio, ricordando di esso solo ciò che di meglio c'era. Il signor M, le appariva in tutta la sua asocialità, come un tenero abbraccio. Carla leggeva con attenzione minuziosa, verificando l'assoluta assenza di testi d'evasione da quella splendida biblioteca e giorno dopo giorno, si persuadeva del fatto che anche persone molto distanti nei gusti e nei valori, possono, a volte incontrarsi e intrecciare le loro esistenze, rimanendo diversi, ma diventando indispensabili le une alle altre. Il signor M. era per lei indispensabile e sconosciuto, lo era come quel mondo ovattato e impersonale nel quale ogni giorno i due si sfioravano solo attraverso la lettura separata di scrigni ricolmi di parole.
" Quando s'avvicina la fine, non restano più immagini del ricordo; restano solo parole" scriveva Borges, ma Carla non condivideva. Pensava che l'argentino fosse stato spinto a quella riflessione per via della sua cecità. Era invece certa che sono solo le immagini a rimanere: tasselli scomposti di memoria tanto più dolenti, quanto più cari. In più, le intense letture l'avevano convinta a pensare che per incontrarsi non servono gli appuntamenti. Così, in un giorno di primavera, diverso dagli altri, decise di indossare un abito verde, frusciante come il vento che suona le foglie dei pioppi in estate.
*******
Non ci scambiammo che poche parole di cortesia da quel momento in poi. La signorina leggeva con una lentezza tale che sembrava annullare lo scorrere del tempo. Evitavo di osservarla troppo, ma da quando aveva varcato la soglia della mia biblioteca, le sue movenze impercettibili, il suo sguardo attento, le sue mani sottili e nodose mi imprigionavano. Inforcava gli occhiali delicati e a capo chino si univa al testo, staccandosene solo quando era giunto il momento di lasciare il santuario.
Fu così per molto tempo, mi parve.
Era ormai diventata abitudine, tanto che guardavo l'orologio con impazienza mentre attendevo che il campanello trillasse sommesso il suo arrivo. Gentilmente, silenziosamente, avvolta nei suoi abiti scuri che a me sembravano tutti uguali o erano forse un unico abito che mutava di qualche dettaglio insignificante, andava agli scaffali che ormai conosceva bene, prendeva un libro e si immergeva nella lettura come se fosse sotto la superficie marina, in un altro mondo.
Una mattina, alla solita ora, si presentò con un vestito chiaro, mi parve verde. Non ci feci troppo caso. La sua figurina agile, morbida, avanzò con una punta di civetteria che solo io, che l'avevo ammirata con discrezione, ma per molte ore, potevo riconoscere. Quello che mi colpì furono gli occhi. Erano azzurro tenue, tenue come tutto ciò che la rappresentava. Non li avevo mai incrociati: erano grandi e intelligenti, intensi. E mi stavano guardando dritto, mentre lei sorrideva timida. Era la prima volta che "vedevo" uno sguardo. Ne ebbi un sobbalzo. Lei non se ne curò o finse di non accorgersene. Passò oltre verso il posto che usava occupare, prese un libro e si sedette. Tutto trascorse nella calma languida dei giorni antecedenti, finché non giunse l'ora in cui normalmente lei andava via. Si alzò che quasi non mi accorsi del suo spostamento. Fu il frusciare del vestito a richiamare la mia attenzione e i suoi occhi azzurri puntati su di me. Questa volta non sorrise, abbassò lo sguardo e ci mise un attimo in più a rimettere in ordine la sua sedia, mentre mi oltrepassava accomiatandosi, come una brezza: "La saluto, signor M."
Il giorno successivo attesi invano il suono del campanello e i suoi passi silenziosi; mi concentrai al punto che in un paio di occasioni, mi parve di udirlo, ma si trattava di allucinazione acustica. Realizzai la sua assenza. La cosa mi paralizzò. Non ebbi forza per fare altro se non guardare il percorso che Carla usava fare mentre raggiungeva la sua sedia e il suo posto, distante da quello che abitualmente occupavo io. Guardavo il tavolo vuoto e pensavo che non avevo mai formulato il suo nome, che ritornava innumerevolmente, come se quel percorso giornaliero che lei aveva compiuto per molti mesi, me ne desse diritto. Carla, Carla. La chiamavo senza parole, senza distanza. Improvvisamente le davo del tu chiedendomi: " Perché non sei tornata?"
Fuori da me era tutto immobile, lucido, luminoso, pulito, mentre io, inerme, tentavo freneticamente di razionalizzare quella improvvisa mancanza che non avrei mai immaginato, se non si fosse verificata.
"Sarà malata... ma come malata! Ieri era così allegra, nuova, diversa... no, non era diversa, ero io ad essere diverso. Diverso e stupido, ecco quello che sono, uno stupido. Uno stupido vigliacco stupido. Tornerà, si che tornerà. Sta leggendo un libro... Ieri, ho visto che era a metà, massimo tre quarti. Si si tornerà. Avrà avuto impegni, imprevisti, le cavallette, la peste... sono un cretino! Non tornerà e lo sappiamo tutti, qui. Ed ora cosa faccio? Aspetto che faccia scuro e vado lì dove c'era lei, fino a ieri"
Non tornò e io attesi per molti e molti giorni ancora, finché col coraggio che mi mancava, osai raggiungere il suo posto abituale. Annusai il tavolo: nulla. Spostai la sua sedia e con il cuore che salì alla carotide e istantaneamente alle tempie infiammando il mio viso, vidi un libro ricoperto da un foglio di quotidiano che gli faceva da copertina.
Lo afferrai. Apprezzai la sua consistenza e il suo peso. Lo accolsi senza scartarlo, senza tentare neppure una minuscola variazione al suo aspetto. Avvicinandolo al viso potevo avvertire la carta liscia, profumata di inchiostro. Me lo portai al petto abbracciandolo. Immaginai me stesso in quell'atteggiamento ed ebbi pietà di quell'omuncolo di mezza età, pallido e invecchiato, quasi non fossi io. Fu per un secondo o poco meno, non so. Poi mi sedetti alla sua sedia: nulla. E cominciai a leggere come faceva lei, ripetendo più e più volte la lettura delle stesse frasi, delle stesse pagine. Si fece buio e accesi le lampade. Poi tornò il sole. Rimasi lì per molto, fino a che non decisi - senza un preciso motivo - che era tempo di tornare a casa.
Continuai ancora la mia lettura a testa bassa camminando meccanicamente lungo la strada del ritorno. Doveva essere pomeriggio, quando mi fermai catturato da una frase : " Il senso ultimo cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della vita, l'inevitabilità della morte."
Poche righe ancora e avevo terminato il mio primo romanzo.
Guardai il cielo, azzurro, quasi fossero gli occhi di lei e mi scappò l'accenno di un sorriso: il mio labbro inferiore sghembo nella bocca asciutta di parole.
Per un attimo - ma fu solo un istante, il tempo di un pensiero- desiderai di essere in un'altra esistenza.
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0 recensioni:
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- grazie fabrizio, mi mancava la tua voce! spero per te e famiglia ottima cose, di cuore
Anonimo il 30/07/2010 20:48
Prosa bellissima, coinvolgente. Sei capace di trasmetttere immagini, emozioni, suoni, profumi... tutto ciò che è Vita attraverso le parole.
Un bel regalo, aver avuto il piacere di leggere la tua Opera.
- E io me ne vanto!
Alla prossima uomo marino!
Anonimo il 22/05/2010 19:58
L'ho riletto ed ho preso una decisione drastica... lo metto fra i miei preferiti. E sono pochi... ciao, buon fine settimana.
- Per Giacomo: Sicuramente ci sono segnali di me sia in lui che in lei: come potrebbe essere altrimenti? Ma poi ci sono anche altre cose che prendono vita autonoma, che esulano da me per diventare forme indipendenti, per essere creature plausibili ma irreali.
Per Nunzio: ti ringrazio per la pazienza nell'aver letto fino in fondo. Ho sempre l'impressione, anche in questo sito, che l'immancabile corsa che la maggior parte di noi fa nella vita si rifletta anche nella lettura, per cui le poesie sembrano essere più lette che i racconti e i racconti brevi più letti che quelli lunghi. E ti ringrazio per le parole di elogio che hai voluto esprimere per questa storia.
Anonimo il 21/05/2010 16:13
Mi piacciono i libri, ancor di più i libri che parlano di altri libri (ma in fondo ogni libro parla di tutti i libri), mi piace, mi affascina questo racconto. Per quanto possa valere il mio giudizio, ottimo! Davvero!
- grazie, grazie grazie, opportuno come sempre!
Anonimo il 20/05/2010 13:34
Ho dimenticato... alla riga 28 c'è un refuso... Quarantadue minuti. Andata e ritorno: casa-lavoro, lavoro-casa. Ore otto del mattino: chiudevo il protone... al posto di portone!
Maria, te l'ho segnalato perchè il tuo racconto meritava di essere pulito da una piccola impurità... come una cacchina di mosca su uno stupendo lampadario Veneziano del settecento in vetro di Murano colorato. Un paragona stupido... ma cosi la vedo io, che ci vuoi fare. Un caro saluto. Giacomo
P. S. ma il protagonista M. ha qualche cosa da spartire con te o no? Voglio dire, c'è qualcosa di autobiografico?
Anonimo il 20/05/2010 12:02
Stupendo, avvincente, scritto benissimo. Apprezzata l'originalità e la scelta meticolosa delle parole appropriate; per questo ho sentito gli odori ed ho visto i colori ed ho partecipato come se anch'io fossi in quella biblioteca. Ottime descrizioni degli oggetti e dei pensieri. Originale quella doppia scrittura, quel modo di far partecipare Carla e M. al racconto. Brava brava davvero. 5 stelle perchè non ce n'è di più.

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