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R O S A

Le sanguisughe sono animali acquatici, che appartengono alla famiglia degli anellidi; hanno il corpo piatto ed una bocca munita di tre mandibole con dei dentelli, che servono per forare la pelle degli animali. Quando si attaccano, secernono una sostanza anestetica e quando succhiano il sangue emettono l'irudina, che è un anticoagulante. Testimonianze storiche dell'impiego medico delle sanguisughe ci riportano all'antico Egitto, ed alla diciottesima dinastia. Anche Greci e Romani lasciarono tracce del loro utilizzo, già diversi secoli prima della nascita di Cristo.
La nostra storia, che non ha nulla a che vedere con i greci ed i romani, inizia in una fredda mattina di gennaio del 1909, quando un misterioso signore, protetto da un ampio mantello scuro,
abbandona sul sagrato della chiesa di Santa Maria della Pietà, in Napoli, un piccolo cesto, dove si intravedeva il capo di una bambina, ben protetta da una copertina di lana rosa, tirata su fino a coprirle la fronte. Un cane abbaiò in lontananza e l'uomo si allontanò in fretta, temendo anche le ombre che si schiarivano rapidamente alla luce del nebbioso mattino. Fu il vecchio custode della Pietà dei Turchini, ad accorgersi della cesta, sottraendo il piccolo fardello al freddo umido della mattinata.
La battezzarono Rosa, dal colore della copertina che l'avvolgeva, e la nutrirono fino a quando non fu data in adozione ad una umile famiglia dell'agro sarnese-nocerino, i coniugi Triestino, meglio identificati col soprannome di "sanguettari", perché vivevano col commercio delle sanguisughe e delle rane del fiume Sarno.
A quel tempo, la piccola Rosa aveva otto anni, ma intuiva già che il futuro le aveva riservato una vita più squallida di quella vissuta nell'orfanotrofio.
Casatori, frazione di San Valentino, un tempo territorio dei Principi Doria di Angri, acquistato successivamente dai Capece-minutolo, per sessanta ducati, si estendeva a croce, verso la chiesa di S. Maria delle Grazie e verso vico San Giuseppe, una sorta di stretto corridoio, che collegava tutti i vicoli della contrada, da quello dei Carresi, a quello di San Benedetto, a quello dei Vergati. La bottega di mastro Savino il falegname divideva l'agglomerato di destra, da quello di sinistra, entrambi serviti da una delle quattro fontane della frazione. I Triestino vivevano alla fine nel vico S. Benedetto. Quando nacquero Gaetano ed Italo, Rosa fece loro da mamma, districandosi abilmente tra i lavori domestici e le necessità dei due bambini. Era brava ad accendere il fuoco, nella vecchia cucina a legna, ed a far da mangiare anche solo con l'acqua ed il prezzemolo. Un piatto caldo non mancava mai. Quando i fratellastri furono abbastanza grandi da poterli affidare a madre strada, Rosa fu mandata per le masserie a guadagnare il pane per la famiglia, incurvando la schiena per le semine o la raccolta degli ortaggi.
Fu allora che la famiglia iniziò a star bene. Anche Italo e Gaetano facevano la loro parte: il primo andando a cercar sanguette ed il secondo col commercio delle rane, tanto da meritare il soprannome di "granognaro".
Il 12 luglio del 1926, Rosa stava raccogliendo pomodori a Sciulia, una lunga striscia di terra ai lati del fiume Sarno. Il sole picchiava forte sui lunghi filari di "San Marzano", lunghe e rosse, come il sangue dipinto sulla ferita dell'Addolorata. Le donne caricavano direttamente sui carretti di Eugenio Strianese, il più grosso sensale della zona, mentre i muli mordevano il morso sotto le stanghe sempre più pesanti. Ogni gabbia pesava all'incirca 36 chili, ma le donne le adagiavano con destrezza sui taralli di stoffa, opportunamente sistemati sulla sommità del capo. Rosa era la più attiva, sembrava avesse il diavolo in corpo, tanto che lavorava. Angelo la notò subito e si fermò a guardarla incantato, prima di scomparire tra due filari di oro rosso. L'avrebbero pagata sicuramente come un uomo, pensava tra sé, certo che la sua povera Michela non aveva mai avuto quella energia lavorativa. Povera donna, era morta portando con sé la bambina che stava per nascere, lasciandolo vedovo e solo.

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