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Il mattatore
Lo sperma le colava fra le cosce. Nina però non stava pensando all’uomo che aveva addosso.
Aveva fatto il bravo, ultimamente, ed allora lo aveva accontentato. Era stato un buon padre ed anche un marito non cattivo, molti, molti anni prima.
Nina era una donna forte ed aveva amato solo una persona nella sua vita: era la persona che, mentre questi pensieri scorrevano per aria in quella stanza non pensati da nessuno, riempiva la sua testa, proprio mentre qualcun altro riempiva il suo corpo.
Una catena di tradimenti, che tradimenti non erano, fu il filo invisibile che tenne insieme vite umane, rendendo questo mondo migliore, meno finto.
Nina era la perla che, tirata su in mezzo alle alghe putrescenti da quella rete pervicace, illuminava l’oceano.
Smagliante, Nina, illuminava me.
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Fui ordinato sacerdote il 16 settembre 1954. Tradii il mio Sposo il 4 settembre 1957. Fu quel giorno che Nina gettò il suo primo raggio di sole nella mia vita. Nulla toglie dalla mia testa blasfema che, non solo Dio ha compreso tutto, ma fu Lui ad orientare su di me la luce che Nina emanava.
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Le vocazioni erano sempre meno ed io fui parroco prestissimo. Di un paese piccolissimo: Ocibello. Contava sì e no cinquecento anime, più quella di Nina, naturalmente.
I primi tempi furono duri. Io ero nato e vissuto sino ad allora in una grande città. Una città bella, dove i tramonti colorano di rosa quella fascia tra il mare ed il cielo dove si posa lo sguardo di piccoli uomini che, solo per questo, possono ringraziare di essere nati. Una città piena di storia, dove passeggiando perdi la cognizione del tempo e conta soltanto chi hai affianco.
In quei momenti ti convinci che batti la terra, fatta di eleganti selciati in pietra, e di stradine strette, e di torri sicure e svettanti, esattamente come facevano i tuoi avi: volendole bene.
Ma ad Ocibello no! Sembrava un posto dimenticato da Dio. Ogni particolare di quel paese, appena arrivai, mi parve sgradevole.
Ero sacerdote solamente da tre anni, ma avevo già imparato bene la lezione: siamo tutti uguali. Ma non potei fare a meno di notare che ad Ocibello ci fosse meno bellezza che nella mia città.
C’era più gente sdentata e con una gran puzza d’alito. Ad ogni angolo di strada un gran fetore, come se ogni soldato del più numeroso esercito del mondo avesse orinato proprio lì, in quell’angolo!
Non dimenticherò mai il giorno in cui arrivai nel paese che mi diede la vita.
Era circa mezzogiorno: arrivai a bordo della mia utilitaria bianca. Anche uno stolto avrebbe capito che si trattava della macchina di un prete o, al più, di un gruppo di suore, di quelle che, oggi, i ragazzini si toccano scaramanticamente quando passano.
Allora non era da tutti possedere un’automobile, tantomeno era consueto per un sacerdote.
Volli lasciare la vettura fuori dal paese: percorsi a piedi una ripida salita, l’ultima necessaria per arrivare al fatidico villaggio. E mi trovai davanti a quelle quattro case dall’aspetto derelitto. Non fui abbastanza stanco da non notare il penoso spettacolo: sprofondai nella depressione più subitanea della mia vita.
Scuro in volto, percorsi le stradine del paese verso la chiesa che, con un grande campanile in una piccola piazza, svettava sproporzionatamente nel borgo asimmetrico. Camminavo con lo sguardo rivolto per terra e sapevo che un migliaio di occhi in quel momento erano tutti per me. Come lame mi trapassavano la carne. Tutta quell’ignoranza voleva ferirmi ed avvisarmi…
Ma il mio passo non doveva tradire alcuna emozione; sapevo che il mio futuro, lassù, sarebbe dipeso dal modo che avevo di camminare in quel momento. Mi convinsi che la testa china non era segno di remissività ma, al contrario, di forza e di fiducia in me stesso.
Non c’era tempo per essere depressi, dovevo avvisarli…
Tutti mi guardavano, ero già il mattatore!
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Un prete di campagna. Io, cittadino sino al midollo, prete di campagna. La vita, delle volte, è più strana di un sogno e non ci lascia distinguere tra realtà ed immaginazione.
Alla porta della chiesa, ad accogliermi, c’era il sindaco di Ocibello. Basso, grasso, sdentato, si potrebbe dire che fosse stato eletto meritatamente: rappresentativo!
I suoi occhi erano la summa di quelli di tutti i suoi compaesani: ignoranti, indagatori e di una diffidenza ingenua. Il suo sguardo non incontrò mai il mio; era evidente che non avremmo mai avuto alcun tipo di collaborazione tra noi.
Le donne del paese erano tutte vestite di nero. Pelose in viso, non dovevano essere state tanto brutte da giovani. Ma erano anziane e, col trascorrere del tempo, non vidi quasi mai donne giovani in quel posto. O forse quelle che lo erano non lo sembravano. Vi era su di loro una costante atmosfera di iattura.
Come una cappa copriva le donne ed il paese: non era una sensazione di tristezza, perché in essa vi è la bellezza dolorosa della malinconia, ma piuttosto il vuoto dell’indifferenza che prendeva gli spazi, e li riempiva, in quel luogo.
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In quei primi mesi stetti molto per i fatti miei. Riducevo volutamente al minimo indispensabile i miei rapporti con il prossimo.
Abitai l’appartamento che era stato del mio predecessore all’interno della parrocchia. Un bivano essenziale e freddo che tentai di rendere più accogliente coi numerosi libri che mi ero portato.
Non ero un grande lettore. Leggevo poco, ma cercavo di leggere sempre pagine di bellezza indimenticabile: Kafka, Camus, Sartre… Letture inusuali per un prete, lo so. Ma ero giovane e cercavo di studiare il nemico… E il nemico mi piaceva!
Certo il pregio letterario del Vangelo è difficilmente eguagliabile, e così la vita di Gesù. Pochi personaggi, storici o di fantasia, sono stati altrettanto rivoluzionari.
Da poco, nei momenti in cui non sono stato seduto davanti alla macchina da scrivere per rievocare questa storia, ho letto uno stupendo racconto di Goran Tùnstrom: “Ariel”. È la storia di un equivoco. L’equivoco per il quale Anna sposa Filip, scambiandolo per qualcuno che non è mai stato ed a cui non oserà rivelare il miracolo della possibile libertà che ricevono in dono: la loro figlia ha le ali!
Era dal tempo di Ocibello che non mi immergevo in una lettura così coinvolgente.
Lassù, soprattutto i primi tempi, mi rifugiavo con disperata avidità nei miei libri. Mi sembrava che mi parlassero di cose reali più di quanto non facesse tutto ciò che mi circondava nella vita di tutti i giorni, che invece mi pareva un mondo che non sarei mai riuscito a penetrare. Persone troppo diverse da me mi facevano venire voglia ogni sera, allorché potevo ritirarmi, di scappare nelle mie letture, che mi davano quella bellezza della città che mi mancava e che le persone di quel paese non riuscivano a trasmettermi.
Ma una sera, leggendo Rilke, mi venne in mente una metafora che cambiò un po’ il mio atteggiamento.
Le opere d’arte sono di un’indicibile solitudine. Nulla può tanto poco toccare un’opera d’arte quanto un discorso critico: si arriva per quella via sempre a più o meno felici malintesi. Le cose non si possono afferrare o dire tutte come ci si vorrebbe di solito far credere; la maggior parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte, misteriose esistenze, la cui vita, accanto alla nostra che svanisce, perdura.
E se quelle persone di Ocibello, che io non riuscivo a comprendere, né a giudicare in modo pietoso, ma solo a criticare e disprezzare, fossero un’opera d’arte?
Pensai che potessi essere io a non capire la poesia insita in persone apparentemente squallide, brutte ed insignificanti.
Che aveva in mente Dio quando ha creato gli abitanti di Ocibello? Quale disegno, attraverso loro, voleva realizzare?
Mi martoriavo il cervello con queste elucubrazioni ed andai a letto pensando alla vita di relazione di parroco che avrei dovuto intrattenere il giorno dopo e pregai di non risvegliarmi più.
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Ad ogni modo, in quei mesi, la vita andò avanti monotona ed un po’ ostile: messe, confessioni e qualche funerale. Mai un matrimonio, un battesimo.
Dacché feci quella riflessione, però, cercavo di essere più ben disposto verso i miei parrocchiani. Mi sforzavo finalmente di pensare che in fondo essi erano pur sempre le mie pecorelle ed io il loro pastore.
Buongiorno Padre, Buongiorno Padre, Buongiorno Padre. Cominciavano a salutarmi, qualcuno persino a sorridermi.
Le domeniche di bel tempo presi a passeggiare per il paese. Volevo che mi vedessero. Volevo che pensassero che ero pronto ad andare io da loro, per chi non avesse fatto il contrario. Se non fossi un prete cattolico direi che se Maometto…
Ma gli occhi indagatori c’erano sempre…
Ed io ero sempre il mattatore!
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Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Da quanto tempo non confessi figliolo?
Non ricordo, Padre, non ricordo.
Mi girai verso lo sportellino. Da distratto che ero divenni attento alla persona il cui volto potevo scorgere a malapena attraverso la grata.
Era una giovane donna i cui occhi sfidavano la legge dei colori: nerissimi spiccavano nel buio che avvolgeva il confessionale.
Come poteva accadere che due occhi così belli venissero dimenticati lassù, in quell’inutile paesino? Era possibile che quegli occhi così forti appartenessero a quella stessa persona che con la voce flebile e smarrita di una bambina si era rivolta a me? Non ricordo Padre, non ricordo…
Dio mi aveva scelto per andare a recuperare quegli occhi? Chi avevano guardato, quegli occhi, fino a quel giorno? E dove si erano nascosti dacché io ero lì?
Quali peccati?
Sto guardando Lei, Padre, non come Uomo di Dio, ma come uomo e basta. Credo di meritare l’inferno per questo! La mia mente partorì questo approccio. La mia immaginazione mi volle già con lei.
Ma nella realtà le cose andarono diversamente.
Quali peccati?
È del tempo che non vado alla messa, Padre.
È del tempo che non mi confesso…
Non sono una buona moglie, né una buona madre.
È del tempo che non amo mio marito.
Amo me stessa e commetto atti impuri.
Può perdonare tutto questo, Padre? Lei può farlo?
La voce era tremolante, paurosa del mondo. Mi dava l’impressione che quella persona stesse davvero parlando con qualcuno per la prima volta. E quel qualcuno ero io. Vi era solitudine in quella persona, che in vita sua aveva potuto sentire solo se stessa.
Mi sentii inadeguato. Sapevo che qualsiasi cosa avessi detto sarebbe stata inadeguata. Così mi fece sentire quella ragazza.
Uscii dal confessionale, presi le sue mani nelle mie, l’avvicinai e l’abbracciai a lungo.
Mi strinse forte e pianse silenziosamente.
Il suo petto sussultava contro il mio ad ogni singhiozzo. Non la lasciai finché non sentii che si era calmata. Allora la scostai da me, le asciugai le lacrime guidando le dita delle sue mani con le mie e…
…in quell’istante mi ricordai dell’abito che avevo indosso.
Ego te absolvo…
Il pollice della mia mano destra la segnò con la croce sulla fronte. Le feci un buffetto come ad una bambina.
Vai.
E lei finalmente sorrise, ma d’un sorriso appena accennato, lieve. Sottovoce, senza guardarmi, disse: Nina
e si dissolse nel nulla, così come era apparsa, come un fantasma.
Allungai il braccio e chiusi il pugno come per afferrare l’aria, quasi a non credere che lei fosse stata lì, davanti a me sino a pochi istanti prima.
Andai nuovamente a sedermi nel confessionale, lasciandolo aperto perché i miei pensieri potessero volare blasfemi per la chiesa e non uccidermi, soffocandomi là dentro.
Quella sera nessun altro venne…
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La mattina dopo fu una domenica radiosa. Era il 5 settembre del 1957 e, per la prima volta, vidi il paese frastornato dal sole, il cielo volato dalla primavera ed io mi sentii un corpo non estraneo.
Stetti alla porta della chiesa. Guardai la gente entrare per la messa di mezzogiorno per la quale, di lì a poco, sarei dovuto entrare a prepararmi. Salutai e sorrisi a tutti, qualche volta ricambiato.
Buongiorno Padre Alle mie spalle Nina. Mi girai Buongiorno Nina! Come sta oggi? Mi accorsi che balbettavo.
Molto meglio Padre, molto meglio. E lei?
Si, meglio, si, si, penso meglio… La guardai entrare.
Feci l’intera omelia senza staccarle gli occhi di dosso. Esistevo per lei.
Nel nome del……… Andate in pace.
Smessa rapidamente la veste, mi precipitai fuori. La scorsi lontana. La seguii a distanza finché vidi dove abitava. Entrò in una casupola uguale a tutte le altre.
In quel momento vidi i muri di quella casa trasparenti e vidi Nina come in una gabbia, dietro le sbarre. Le sbarre erano il marito e i figli.
Dopo che ebbi questa allucinazione, turbato, mi decisi a tornare verso la chiesa, lentamente e con sofferenza.
Andai a letto senza pranzare, volli stordirmi. Coricato, bevetti del vino rosso, pastoso e forte. Gli occhi lucidi, socchiusi, manifestavano quel poco di vita che in quel momento il mio corpo tratteneva con noia presso di sé.
. . . . .
Mi appisolai in quello strano sonno pomeridiano. Ubriaco, ora sognai me in una gabbia a forma di basilica, e Nina fuori libera che volava con candide ali bianche come la Ariel di Tùnstrom. Mi agitai e mi svegliai visibilmente scosso.
Nel giro di pochi secondi, però, fui di nuovo in me. Ero sveglio, lucido, gli occhi sbarrati fissavano il soffitto. Rimasi immobile così, credo per ore. Disteso nel letto, vidi scorrere su quel soffitto, come in cinemascope, la mia vita.
Ora ero sveglio, non stavo sognando: riflettevo… La riflessione più dolorosa che avessi mai voluto affrontare.
Il film della mia vita… Avevo forse sbagliato tutto?
Io quando, appena nato, afferrai col mio debole pugno il dito indice di mia madre… Io bambino che giocavo a pallone per strada, nella MIA città… Io ragazzino alla scuola di suore, gli scherzi con gli altri… Ragazzo al seminario, i dubbi… Io giovane sacerdote, impegnato nel sociale, con gli amici di sempre, di una vita… E poi Ocibello… Ed ora Nina…
Mentre così ripercorrevo la mia esistenza, non riuscivo, benché mi sforzassi, a ricordare perché ero divenuto un Servo di Dio.
Certo ero allenato a darne una spiegazione a chiunque mela chiedesse. Ma non riuscii a ricordare quando questa nacque in me. Mi sforzai, soffrendo, ma non riuscii a ricordare.
Quando? Come? Perché?
Ed ora?
Mi sentii perduto e scoprii che non stavo pregando.
Dio era stato il vero mattatore della mia vita. Tutti i riflettori sempre puntati su di Lui. Questo forse avevano voluto per me altre persone, non io.
Io non mi ero mai chiesto niente.
In quel film nel soffitto avevo per la prima volta visto me stesso: non mi ero mai osservato.
Era venuto il momento di avere io la scena? Io, proprio io, il mattatore?
Era ormai sera, ma non credo di quello stesso giorno. Dovetti passare diversi pomeriggi e diverse notti nello stesso modo, solo apparentemente catatonico, riflettendo.
Comunque era una sera e, dopo i soliti pensieri che avevano annullato la mia pennica pomeridiana, mi alzai, andai in bagno e mi sciacquai forte la faccia, più e più volte.
Mi sistemai i capelli e la veste. La veste non mi dava fastidio. Allo specchio, e mai prima d’allora era accaduto, mi GUARDAVO.
Mi fissai negli occhi e mi decisi: Nina! Lo dissi a voce alta.
In quello specchio mi vidi con lei e con dei bambini attorno a noi: una famiglia.
Forse Gesù, sulla croce, ebbe di questi pensieri? Mi sorrisi… Nina! Ancora ad alta voce.
Elettrico, mi precipitai fuori per andare da lei, ma, aperta la porta del mio appartamento sulla strada nel retro della chiesa, SBATTEI letteralmente sul postino.
Per Lei, Padre. In un paese sperduto come Ocibello il postino arriva di sera solo per consegnare posta urgentissima.
CURIA ARCIVESCOVILE
Gliela strappai dalle mani. Nervosamente l’aprii.
Tremavo… I miei occhi volevano scappare da altre parti, non essere complici, non essere lì.
In essi, in un istante, ancora il film della mia vita… Nina…
URGENTISSIMO. LI’ MARTEDI’ 17 SETTEMBRE 1957
GENTILE PARROCO DI OCIBELLO
OGGETTO: TRASFERIMENTO.
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1 recensioni:
- Gustosa la differenziazione tra "lo squallore" di Acibello e la bellezza e la luminosità di Nina.
Mi ha ricordato molto Bocca Di Rosa di De Andrè...
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