Capitolo primo
La bettola emerse dalla foschia come un miraggio.
L'uomo inspirò, espirò, inspirò di nuovo. Frugò nei taschini dell'impermeabile, tra briciole e fazzoletti raggrinziti, e tirò fuori l'astuccio delle sigarette. Lo rivoltò tra le mani rugose e lo soppesò con indifferenza. Era vuoto. Lo gettò via distrattamente. Sospirò e volse il suo sguardo angosciato verso destra, verso il vicolo avvolto nel miasma delle serpentine di scarico, lugubri luci al neon come stelle in un firmamento indistinto. E la pioggia che si infrangeva obliqua e tintinnante sui telai arrugginiti delle finestre. Oltre tenebre immobili e anfratti dimenticati. E più in là ancora, attraverso miglia di nulla, si dischiudeva misterioso e solenne il tetro orizzonte. Eterne distese di detriti e di frammenti e di cenere. La sagoma aguzza della città. Bassifondi marcescenti. Odore di morte e putrefazione.
Tossì. Il bagliore cinereo del lampione irradiava il suo profilo inflessibile, il suo profilo statuario. Attraverso la sozza vetrata della bettola scrutò di sbieco una giovane donna rischiarata dalla fiamma volubile e incerta di una candela. Una come te non dovrebbe essere da queste parti, amica. Guardala. Gli occhi, buchi neri nell'immensità azzurra. Capelli lucenti e la ciocca che le ricade languida sulla fronte. Le sue labbra vagamente curvate in un sorriso capovolto. Quel lungo abito di seta indaco. Guardala.
Era seduta a un tavolo, sola. Stringeva tra le mani un vecchio Moleskine rosso e lo sfogliava con aria assorta. Un raggio di luce obliquo le rischiarava le mani tremanti, le dita così sottili, gli anelli splendenti. Bevve un sorso di vino, gli occhi smarriti nel vuoto della notte e della città. L'impronta del suo rossetto color porpora si impresse come un fantasma, come un monito, come una profezia, sul bordo del bicchiere. Deglutì e riprese a sfogliare il Moleskine logoro, antico scrigno di ricordi sfuggenti.
L'uomo aprì timidamente la porta sotto l'insegna della bettola. Scampanellò qualcosa e la donna trasalì, ma gli occhi grandi e malinconici non parvero tradire inquietudine. Sorrise cauta. L'uomo appese l'impermeabile e si guardò attorno. Un juke-box distrutto dal tempo implacabile. Poster sgualciti su pareti in rovina. Menù macchiati di lacrime mai versate. Due dita di polvere sugli ottantotto tasti di un pianoforte a coda. Insegne baluginanti e ronzanti nell'oscurità diffusa. Scintille qua e là. Un ventilatore che turbinava lento, irrequieto e cigolante.
Di là dal bancone, di là da una polverosa raccolta di libri di Raymond Chandler, di là da una sudicia e dimenticata macchina per l'espresso, il barista era immobile, imbalsamato in una posa bizzarra e singolare. Un volto senza volto, un'anima senza anima. Un simulacro pallido, il colore della morte. Emise un rantolo e batté le palpebre. E fu tutto.
Per il resto, la bettola era deserta.
L'uomo si avvicinò alla donna, ma non disse nulla. Solo la contemplò con riverenza, una reliquia sacra nella perdizione di quell'universo sull'orlo del declino. Si sedette a un tavolo nell'angolo meno illuminato, accanto a delle squallide riviste di moda impilate una sull'altra. Vi trovò poggiato un bicchiere di vino e iniziò a bere. Assaporò il sapore acre, ricco, fastoso. Poi un sussurro infranse il silenzio.
Schegge di silenzio dappertutto, ora.
Anche tu l'hai persa?, domandò la donna.
Cosa?, ribatté l'uomo con voce tremante.
La donna socchiuse gli occhi e sorrise sorrise sorrise, e il sorriso stesso era una visione divina, una danza arcana di un mondo ormai risucchiato dall'oblio. La vita, disse.
L'uomo ci pensò su. Sì, anche io, ammise triste.
Capita, asserì la donna. Richiuse il Moleskine e riprese a parlare con un tono di voce più basso, appena udibile. Vuoi sederti qui?
L'uomo si alzò e si sedette vicino a lei. Nessuno dei due parlò per un pezzo. Soli, nella notte eterna, rimasero ad ascoltare quel loro silenzio così fragoroso, come un grido in faccia.
Scriverò le mie memorie, e così sia. Così deve essere.
Il giorno seguente fluì via fiacco e inafferrabile. Il disarmonico trillare della sveglia, bip-bip-bip, ore cinque e quarantasette, i muscoli ancora intorpiditi dopo un'altra notte insonne. Mentre pisciava prese a considerare con disinteresse quello strano brandello di pelle e tessuti e vene che stringeva nella mano destra. Dalla finestra del gabinetto intravide un cartellone pubblicitario sospeso sulla spoglia facciata del palazzo di fronte. E le linee, la sagoma di quella mannequin, il suo sguardo ammiccante. Bellezza, non dovresti vantarti. Non dovresti dare sfoggio. Se sei come sei, diavolo, non è certo merito tuo. Si tratta, banalmente, di un dono. Ecco cosa, bellezza.
Mutande e nient'altro in un gabinetto angusto e puzzolente. Piastrelle infradiciate, tubazioni corrose, ceramica scheggiata. Il gorgoglio dell'acqua nello scarico era insieme il ritmico sciabordare delle onde, il crepitio delle funi in tiro e uno scafo oscillante sulla superficie cristallina di un lago. Vagava. La lama del rasoio sulla sua pelle nuda e avvizzita, la schiuma da barba raggrumata in montagne come di panna. Innocui rivoli di sangue, la linfa vitale sbiadita e succhiata via. Fissò lo specchio. Il suo riflesso che lo scrutava austero e altezzoso, lo stesso cipiglio di chi stia assistendo a un fallimento.
E poi giù nella strada, a passo svelto, il distintivo arrugginito che tintinnava nelle tasche. Barboni e lebbrosi e reietti e ubriaconi e troie e l'uomo che li contemplava silenzioso. Dietro l'angolo, attraverso un viale grigio sotto il cielo plumbeo, alberi sguarniti come scheletri torti, radici e rami e foglie secche. Il banco dei pegni, vetrine maestose, oreficerie. Ratti che si contorcevano nei vicoli, volantini calpestati, misteriose iscrizioni e simboli imperscrutabili sui muri di granito.
All'ora di pranzo fece una scappata al Cavallo Bianco ma, ovvio, lo trovò chiuso. Quello era un posto per uccelli notturni. Allora mangiò qualche porcheria dal paninaro sul lungomare, solo un lurido caravan bianco piazzato ai bordi del marciapiede. Mosche che banchettavano ingorde sul kebab nel vassoio. Il paninaro le osservava corrucciato. Dio è grande, borbottò, ma ha sbagliato due cose, amico. Le mosche e i froci. Tu sei frocio?
L'uomo fece un cenno di dissenso mentre addentava l'hot-dog.
D'accordo, concluse il paninaro con un sospiro. Io odio i froci.
Venature di calcestruzzo scavate nell'intonaco ingiallito e ganci deformati che sorreggevano i cappelli. Pareti colme di cilindri un po' buffi, di crani svuotati, di berretti scoloriti, di visiere di cartone e di bombette di stoffa. Nell'angolo una stufa elettrica e i piedi intirizziti di una vecchia e il calore che disegnava volute liquide nell'aria. La vecchia alzava lo sguardo a intermittenza, piangiucchiava e borbottava.
L'uomo domandò al commesso. Che era un tipo sulla trentina, tipico modello Charlie Brown con accenni di calvizie e denti sporgenti. Stava consultando un catalogo di scarpe.
Per una donna?, disse alzando gli occhi da quell'ammasso di fogli.
Sì, rispose l'uomo. Qualcosa di speciale, il meglio che avete.
Tutto quello che abbiamo è esposto, fece Charlie Brown con aria annoiata.
L'uomo si guardò attorno. Per esempio un cappello in feltro, disse. Beige, come si portavano una volta. Quelli con le strisce di pezza. Ecco, la striscia di pezza: dovrebbe essere nera. L'uomo sorrise.
Tutto quello che abbiamo è esposto, ripeté Charlie Brown con un cenno della mano.
L'uomo sospirò, deglutì e ritornò in strada.
Il sole aveva iniziato la sua lenta discesa verso le tenebre.
Il funerale era la necessaria conclusione del caso Dreyfus. Nella quiete del pomeriggio i rintocchi della campana echeggiarono imponenti e definitivi, ambigue cicatrici in esistenze già segnate. E l'uomo scrutò le figure, l'uomo scrutò le figure vestite in nero, le figure con il capo chino, le figure piangenti.
Tra i volti indistinti e confusi scorse Holmes fargli un cenno di saluto. Ricambiò. Poi socchiuse gli occhi e ripeté mentalmente la preghiera. Affidò alla nuda terra le tenere ossa di una bambina di undici anni. Che venga sepolta qui e che qui rimanga. Così va questa storia. Così va il mondo.
Dopo il funerale decise di fare quattro passi. Non era altro che un'anima abbandonata nel suo vagare, e la destinazione finale era ignota. Guardò in alto, verso la luna. Ma era solo un abbozzo, uno spicchio di poco conto. E guardò in basso, verso quei consunti stivali di pelle nera che calpestavano l'asfalto, che rivoltavano la polvere. A ridosso di una parete scalcinata vide veleggiare frammenti di carta bruciata, insignificanti fanfaluche nell'aria gelida.
Una città triste e dimenticata, una città sull'orlo dell'abisso. Era il confine della solitudine. L'uomo camminò lungo il limite, lungo il margine estremo, attento a non scivolare. Il barbone nella viuzza lo richiamò. Non ti ho mai visto da queste parti, disse.
Era sudicio, puzzolente. Sono solo di passaggio, rispose l'uomo.
Tutti sono di passaggio, disse il barbone con aria distratta. Dove sei diretto?
L'uomo alzò le spalle. Non lo so, sussurrò. Quant'è distante la diciassettesima?
Il barbone rispose che non ne aveva la più pallida idea. Chiese di nuovo dove fosse diretto, e l'uomo disse di nuovo che non lo sapeva. Sì che lo sai, dichiarò. Sei diretto alla diciassettesima.
L'uomo sorrise e proseguì.
Dalla finestra scrutava la diciassettesima strada. Due linee: tra di esse l'asfalto e tutto il resto oscurità. Contemplò con tristezza quella figura di donna poggiata sulle lenzuola, la baciò sulla guancia e si sedette al suo capezzale. Le sussurrò parole di perdono, e lei non poteva sentire. Il suo cranio rasato, infiniti tubicini e le loro aguzze appendici conficcate con violenza nella pelle, il borbottio lamentoso delle macchine, qualche bip di tanto in tanto. Quasi a voler dire che sì, lei viveva ancora.
L'uomo affondò il volto nelle mani. Riemerse ansimando. Mancanza d'aria. Rumori sommessi dal corridoio, grida di dolore, sofferenze taciute, litanie e lagne e preghiere e invocazioni e suppliche. Chiuse la porta. Baciò ancora la donna e la sfiorò, e il contatto gli restituì solo un brivido gelido lungo la schiena. Un morbo impietoso e inesorabile. Il segno perentorio della fine. Uno sberleffo.
Tutto quello che tocco va in rovina. Sono il Re Mida della distruzione, oh sì.
Giocherellò con i pollici e tamburellò sulle ginocchia. Disse: volevo comprarti un cappello. Passò una mano sulla superficie glabra della testa di lei. Non senti freddo? Così nuda, così indifesa.
Si alzò e indossò l'impermeabile. Io vado, disse. Addio.
Cosa prendi?
Niente, rispose l'uomo.
Che hai?, fece Holmes con la bocca piena. Affogava i dispiaceri nell'alcol, una lattina di bionda in una mano e un hot-dog nell'altra. Il Cavallo Bianco, irresistibile fascino da locale inglese, il fumo delle sigarette come una coltre di nebbia tossica, tavoli sudici, giradischi gracchianti che intonavano vecchie canzoni country. Atmosfera da tardo Medioevo, il tempo sembra fermarsi in certi posti.
Tutto è andato a farsi fottere, con il caso Dreyfus, riprese l'uomo.
Holmes annuì. Non è colpa di nessuno, sentenziò.
Si scambiarono un'occhiata. Non dire cazzate, John.
Holmes cambiò argomento. Come se la passa Tabby?
L'uomo batté le palpebre. Non bene, dichiarò.
Rimasero in silenzio. A fissarsi. Come se tutto il resto non esistesse. Come se tutto il resto non importasse. La cameriera sfilò tra i tavoli con leggerezza, quasi che danzasse sulla punta delle scarpe. Vassoi straripanti di bicchieri svuotati, schiuma raccolta sui fondi, bottiglie distrutte, disperazione in pillole.
Che mi racconti?, domandò Holmes dopo un altro morso.
L'uomo tossì. Estrasse il portafogli e sbatté sul tavolo una banconota da dieci. C'era scritto, con un'incerta grafia da donna, un indirizzo e un numero di telefono. Holmes strabuzzò gli occhi. Cos'è?
Ho conosciuto una donna, disse l'uomo con un abbozzo di sorriso.
Quando?
Ieri notte.
Dove?
In una bettola.
E come si chiama?
Dici la bettola?
No, la donna.
L'uomo rifletté per un momento. Non lo so, rispose scrollando le spalle.
Holmes puntellò i gomiti sul tavolo e inarcò le sopracciglia. Era una puttana?
No, rispose l'uomo ridendo.
Sul serio?, insisté Holmes sogghignando.
Credo, concluse l'uomo. Poi il suo sorriso dissolse. Voglio andarmene, amico.
Per il caso Dreyfus?, bisbigliò Holmes. Non è stata colpa tua e lo sai.
È per dimenticare. Per ricominciare.
Tabitha, ricorda di Tabitha. Ha ancora bisogno di te.
È finita per lei, John, disse l'uomo abbassando lo sguardo sul tavolo. È arrivata al capolinea.
Anche Holmes abbassò lo sguardo. Chiederai il trasferimento o hai chiuso?
Trasferimento, disse l'uomo. Allungò una mano verso la lattina di Holmes e bevve un sorso.
Dove andrai?
Lontano da qui.
Dove?
Hai idee?
No, asserì Holmes dubbioso. Non è la scelta giusta. Pensaci.
Pensare troppo fa male.
Non pensare è peggio.
Non credo.
Qualche ora dopo, nel suo appartamento, si spogliò di tutti quegli indumenti che da soli elevavano il suo ego. Camicie, divise, bluse, canottiere, pantaloni. Nudo, si sedette sul margine del letto e ascoltò inquieto il rumore del suo respiro, solo un lento e doloroso rantolo, ma era vivo. Fissò la cucina. Dimessa, malinconica e sciatta, come in un dipinto di Edward Hopper.
Strinse la cornetta e compose tremante il numero sulla banconota. Dall'altro capo ascoltò solo una serie di vibrazioni metalliche e nessuna risposta. Sospirò. Ripose la banconota nel portafogli, si strapazzò l'uccello e gettò il suo amore, avvolto in un fazzoletto, giù nello scarico del cesso. Poi tirò lo sciacquone.
L'acqua della doccia gli scorreva addosso bollente. Il vapore si innalzava lento e arrendevole nell'aria, e nell'irrazionalità ogni cosa aveva senso, il disegno acquistava finalmente compiutezza. Il suo viso si contrasse in una smorfia e si trasformò in una maschera, la maschera di un vecchio Boris Karloff singhiozzante. L'acqua lavava il sudiciume, l'acqua mascherava le lacrime.
Quella stessa notte sognò, e nel sogno era ritornato bambino. Sua madre lo carezzava, lo vezzeggiava, lo cullava. Rivide anche suo padre che veniva fuori dall'ombra, lo sfiorava e si ritraeva timido.
Lui, bambino, appoggiava per la prima volta i piedi in terra e si dirigeva verso la porta. Un lungo corridoio dalle pareti bianche, quasi accecanti. I bordi di ogni cosa erano vibranti e confusi. E, piano, si ritrovava in una sala enorme, centinaia di porte rosse e altrettanti cartelli che specificavano le rispettive direzioni. Ne lesse alcuni. Malattia, sofferenza, desiderio, volontà, annullamento. Sul soffitto era scritto, con curiose lettere arabescate, un dogma. Il dolore implica la cicatrizzazione.
Il bambino era esitante, perplesso, incerto sul da farsi, così domandò a una figura lì vicino quale porta dovesse aprire, quale direzione dovesse prendere per continuare.
Non ha importanza, fece la figura di tutta risposta. Nel corso della vita aprirai ogni porta.
Così il bambino si diresse verso il passaggio alla sua sinistra. La scritta sul cartello era illeggibile.
Si ritrovò in un altro corridoio lungo e anonimo. Ovunque volgesse il suo sguardo vedeva uomini avanzare indolenti e confusi come pesci fuor d'acqua. Non gli rivolgevano la parola, erano semplicemente troppo indaffarati a trovare una via d'uscita. Erano solo involucri vuoti, tutti uguali.
Dopotutto anche il bambino era uno di loro, solo un piccolo frammento di nulla.
Forse non aveva neppure un nome.
Di mattina tutto era meno grigio.
Alla centrale gli offrirono due possibilità. Andare al diavolo o andare a Kunstwollen.
Kunstwollen? Una piccola e solitaria isola a occidente. Il posto perfetto per cancellare i tormenti del caso Dreyfus, per affogare nell'immobilità o farsi trasportare dall'inerzia, dal corso degli eventi. Per morire di una morte lenta e silenziosa. Per dimenticare e per essere dimenticati.
Ritornò all'appartamento e si preparò. Nello zaino e nella valigia aveva tutto l'occorrente per il viaggio. L'autobus partiva quello stesso pomeriggio, ma prima aveva un affare da sbrigare. Esaminò l'indirizzo sulla banconota e poi la mappa fosforescente della città, proiettata su uno schermo enorme all'ingresso della stazione degli autobus. Non trovò riscontro e si decise a chiamare un taxi.
Ho bisogno che mi porti qui. In fretta. Il posto è scritto sulla banconota.
L'autista prese la banconota da dieci e inarcò le sopracciglia. Quell'indirizzo non esisteva.
Impossibile, fece l'uomo sbigottito.
È vero, pendejo, disse il tassista sospirando, come fosse dispiaciuto sul serio.
L'uomo abbassò lo sguardo. Vide le sue mani rugose e quelle vene pulsanti, la vecchiaia che lo divorava ogni giorno di più. Non era più il tempo, non era più il caso di correre dietro certi folli amori. Non più, sul serio. Smontò dal taxi senza dire una sola parola. Pendejo, lo richiamò l'autista.
Cosa?, sbottò l'uomo spazientito.
Hai dimenticato el dinero.
È tuo, rispose lui.
Grazie, senõr, disse l'autista intascando la banconota da dieci.
L'uomo fece un cenno con la mano e lentamente, come se si fosse arreso di fronte allo scorrere del tempo, dissolse nella foschia di quel giorno d'autunno, proprio mentre il sole stava calando, l'inverno era alle porte e la redenzione sembrava più lontana che mai.
Capitolo secondo
Nel sogno: perché tu sia questo e solo questo. Prendi, bevi.
Dischiuse le palpebre, espose alla luce gli occhi arrossati e si guardò attorno confuso e intontito. Ultima fila, lato sinistro, autobus della linea tre. Paesaggi che scorrevano veloci e indistinti fuori dal finestrino. Quante vite popolano queste lande, quanti dei, quanti altari insozzati di sangue? Figure senza consistenza, vapore nell'aria. Un lampo all'orizzonte, attraverso il vetro, e poi scompaiono silenziosi.
Doveva aver dormito. Del sogno ricordava soltanto il suo volto riflesso sullo specchio in un pomeriggio uggioso. Quando tutto scorre troppo lentamente perché ci si dimentichi che la vita è il vestibolo della morte. Il riflesso della madre si sovrapponeva al suo. E nelle mani stringeva un calice.
Diceva: perché tu sia questo e solo questo. Prendi, bevi.
Vestigio di memorie perdute. Sguardo attonito su valli rocciose, ruscelli dal dorso lucente, fronde ossute, otarde azzoppate e palaie ricoperte di patina dorata. L'impeto degli elementi. Laggiù i colori della tempesta che si stava avvicinando. Vide i pendii a picco sulla strada tortuosa, rupi aspre e spigolose, il cielo dipinto di un grigio smorto, pallido. Radici che affondavano nel terreno e lo arpionavano, ultimi sostegni prima del collasso finale.
L'autobus proseguiva veloce attraverso quel mondo nuovo, vibrante di mistero. L'uomo rabbrividì: sbuffi di freddo dalla guarnizione del finestrino. La percezione della sofferenza gli ricordò i propri limiti. La consapevolezza di essere un tassello insignificante. Allungò la mano destra e strinse in pugno il manico della valigia. Lì dentro c'era la macchina da scrivere.
Scriverò le mie memorie, e così sia. Così deve essere.
Passò la notte a occhi aperti, a cercare invano di prendere sonno. Minuti che assumevano la consistenza di interi anni, interminabili momenti dell'essere, rimpianti e desideri e pensieri che si affollavano nella mente. Risuonava la loro eco come un canto mortale, note stonate dappertutto, su, giù, in continuazione.
E venne il giorno successivo e sempre l'autobus proseguiva instancabile, un vascello con il suo carico di vittime esecrali verso l'ultima destinazione possibile. Funzionava in quella maniera.
La corsa terminava in un villaggio sulla costa occidentale, il punto d'imbarco per raggiungere l'isola. L'uomo spalancò insofferente la portiera dell'autobus e guardò oltre l'uscio. Un cartello logoro e arrugginito si ergeva solitario ai margini della strada. Kunstwollen è il paradiso: sagome di lettere ormai stinte e incerte sullo sfondo color avana. E di là da esse una sconfinata pianura, che terminava saldandosi sul margine dell'orizzonte con una catena di timidi declivi, colline frastagliate, vaghe, indistintamente ocra. Ocra era il colore di tutto sotto il sole d'autunno. Un torrente serpeggiava, guizzava e fiancheggiava le depressioni. Parallela a esso la via si avviluppava tra le chine.
Oltre le alture il terreno digradava dolcemente verso valle, verso un piccolo porticciolo interamente fabbricato in legno. Il battello attendeva sul lato destro del molo, ritto sulla superficie fluttuante del mare e avvolto da una densa bruma frammista al puzzo dei condotti.
Il polverio danzava nell'aria con fioca lentezza, strana apatia di quel pomeriggio ormai volto all'imbrunire. L'uomo scrutò il suo riflesso distorto e falsato sugli oblò del battello. Era solo una macchia tra il cappello e l'impermeabile.
Vide davanti a sé una vecchia signora sul viale del tramonto. Vestiva in maniera pomposa, con una monumentale piuma sul suo sfarzoso copricapo e un abito che ricordava lontanamente qualche sontuosa fantasia floreale. Un sottile velo bianco le ricopriva il volto e le rughe.
Tre giovani dall'aria spavalda, agghindati in pittoresche divise da marinai, si avvicinarono a lei e iniziarono a corteggiarla, a baciarla, a rigirarla tra le braccia. La vecchia signora rideva, rideva di gusto sotto il velo candido. I giovani parlavano a voce alta, le facevano di tutti i dispetti. E lei continuava a gioire. Sembrava che fossero sospinti dal vento: i sorrisi, i baci che schioccavano, le lusinghe.
E infine si separarono, quando il battello chiamò con il suo strombettare irrequieto. La vecchia signora si incamminò verso la fine della banchina e, illuminata dalla luce del sole morente, era più bella che mai. Quasi che né gli anni né i supplizi della vita potessero spezzarla.
Vecchia signora, amica mia. Siamo fatti della stessa pasta, siamo anime destinate alla sofferenza. Ci stiamo imbarcando senza sapere ciò che lasciamo alle spalle. Il distacco e la distanza si percepiscono solo troppo tardi. Ti vedo, vecchia amica mia. Getti in terra i bagagli e ti appoggi sul sedile rovinato e aspetti che il vuoto ti riempia. Adesso sei sola. Non c'è nessun giovane marinaio che ti faccia la corte. È un destino comune a tutti, quello di rimanere soli. Sì, siamo destinati alla sofferenza.
L'uomo si sedette e sospirò. Un gran strepitio di valvole e pistoni: il battello era salpato.
Il mattino seguente attraccarono all'isola di Kunstwollen. L'uomo fu il solo passeggero a sbarcare. Osservò il battello allontanarsi sul filo dell'orizzonte fino a scomparire del tutto. Come da accordi trovò un cavallo legato a un salice, accarezzò la sua criniera lucente e montò su. Si avviò verso l'interno dell'isola, soltanto un centro di poche, piccole abitazioni seminate intorno a un vasto confine, ognuna solitaria e parecchio discosta dalle rimanenti.
Desolazione, quando le attraversò in sella alla sua cavalcatura, studiando con prudenza la loro ubicazione, scrutando attraverso le consunte finestre di legno o le tetre inferriate. E non vide anima viva e non udì rumore che non fosse il pigro, sommesso e metallico sbatacchiare della porta di un fondaco. Il suo cigolare lento e ritmico e ipnotico.
E se tutto il mondo fosse così? Se l'universo si riducesse alla metropoli dei morti, alla città delle ombre? Se l'ultima visione prima dell'infinito fosse il nulla assoluto? Se la vita non esistesse?
L'uomo proseguì fiaccamente, trascinandosi, soffrendo per l'insolita calura. Misurava le distanze. Vide un ristretto gruppo di turisti, stranieri carichi di mistero che si dirigevano verso il porto. Presto sarebbe arrivata la stagione delle piogge. Che diavolo, sarebbe anche passata prima o poi, bastava solo pazientare. Nella vita tutto si riduce a una sfibrante attesa, cari amici miei. Segnate: Charles Bukowski per principianti, capitolo primo.
Arrivò sulla sommità di un alto pendio che dominava la costa rocciosa, il mare di un blu ostile e avverso. Da lassù scorse, in un'insenatura, un altro porto di cemento e un faro. Alla sua destra il percorso si biforcava con decisione. Da un lato avanzava verso la costa, dall'altro si congiungeva con uno slargo limaccioso, proprio ai piedi di una pendenza arida e tetra. Lì, in un angolo, una putrida carcassa di animale accanto a una croce di legno sghemba e malferma.
Smontò dal cavallo e proseguì verso la collina.
Bellezza, bellezza è simmetria. E così si dischiudeva il sontuoso schema simmetrico di un cimitero, croci granitiche, misteriose, fastose, principesche, sepolture adornate di crisantemi e girasoli e rose. Una necropoli che rivestiva l'intero dorso occidentale della collina. Il fascino della morte.
Lasciò che i suoi occhi vagassero tra le sepolture. Vide un vecchio barbuto che scavava con avidità, guidato da una volontà superiore, a ridosso di una croce. L'uomo sollevò una mano in cenno di saluto, e il vecchio continuò a scavare senza nemmeno alzare lo sguardo.
Empori sbarrati, grate abbassate, locali incendiati. Uno squallido supermarket sul margine della strada, cani che guaivano lontani e gatti che si arrampicavano sonnolenti sui muri. Seduti ai tavoli del bar, certi vecchi bofonchiavano annoiati, sbadigliavano, giocavano a carte. Stradine secondarie annerite dal sole, chiglie sottosopra e copertoni bruciati. Un monte che svettava solitario nell'aridità dell'isola, epicentro di quel mondo nel mondo. Tornanti che si aggrovigliavano tutt'attorno come serpenti, come tentacoli. Sugli alberi cartelli con diciture sgrammaticate.
Chi sono? Dove sono finito?
Ritornò al centro abitato e fece come gli avevano detto: attese nella piana centrale che qualcuno si facesse vivo. Dal retro di un'abitazione venne il cenciaiolo con una valigia in una mano e una copia delle Scritture nell'altra. Era un personaggio singolare. Capelli lunghi, tatuaggi sul collo e un'aria da saggio o da intellettuale. Dapprima si parò davanti all'uomo e lo studiò incuriosito. Poi drizzò un indice in aria e sorrise, come se avesse avuto un lampo di genio.
Vieni, disse. Guarda Kunstwollen e non fiatare. Non disturbare il sonno di chi dorme, non lo fare mai. Vedi, quella è la casa del reggente, del monarca, del primo ministro, del primo cittadino dell'isola, il carissimo Jacob Lasseter. E lassù è il cimitero, ma ho idea che tu ci sia già stato.
L'uomo annuì. Il cenciaiolo estrasse dalla ventiquattrore un cappello da cowboy. Sai chi sono io? Non lo sai e non lo saprai. Forse un giorno, ma quel giorno non è oggi. Il sole è appena calato, percepisci il freddo che si insinua tagliente tra le tue ossa? Dalla terra ferma ti sei portato appresso il grigio dell'esistenza e una tempesta. L'ho capito subito appena ti ho visto. Il vento si sta alzando, il mare si sta agitando. Presto sarà l'ora dei morti, è bene che tu non ti faccia trovare nelle strade.
Il cenciaiolo si fermò di soprassalto. D'accordo, ascolta. Mi hanno detto di farti accomodare all'Holiday, almeno per stanotte. Non è il massimo, ma ti troverai bene. Queste sono le chiavi per tutte le stanze. Sistemati un po' dove ti pare, non dovrebbe esserci nessuno in questo periodo.
Il cenciaiolo sorrise. L'uomo prese il grosso mazzo di chiavi arrugginite e lo esaminò incuriosito.
A proposito, continuò il cenciaiolo. Com'è che ti chiami?
Ma l'uomo aveva già preso a camminare verso l'Holiday Inn e la sua insegna storta.
Cigolio.
Il cenciaiolo lo seguiva con lo sguardo dalla distanza. Seguiva quell'ombra che perdeva consistenza nell'oscurità, che la riacquistava sotto i lampioni, che la perdeva di nuovo. E l'uomo sapeva che il nero era la salvezza e la luce era l'esposizione, e alla luce non potevi fare altro che subire.
E il cigolio.
L'insegna dell'Holiday Inn cigolava attorno ai suoi cardini di ferro, spinta con delicatezza da quel vento instancabile. Un soffio e un altro soffio. Una balconata di legno e vasi di ceramica e tavoli sottosopra e sedie anche loro sottosopra. Attraverso la soglia, nella reception, fiori appassiti che si protendevano in avanti come transfughi in cerca di perdono. Steli curvati, petali secchi. Il campanello e altri oggetti senza utilità sparsi sul bancone. Il registro degli ospiti aperto a pagina tre, l'elenco degli arrivi e delle partenze come qualcosa di ineluttabile. Il registratore di cassa sepolto sotto la polvere, chiavi appese, graffe arrugginite che sorreggevano mappe e locandine e cartelloni.
L'uomo prese il mazzo di chiavi, ne strofinò l'intarsio barocco e percepì l'odore pungente del metallo corroso. Chiamò ancora con il campanello. Si sporse verso il corridoio in cerca di qualcuno, ma laggiù tutto era immobile.
Scelse una camera a caso. La porta della numero cinque era per metà marcia e per metà bruciata. Infilò la chiave nella serratura. Un giro, due giri, tre, quattro, e udì uno schiocco. Scostò quel pesante ammasso di legno
(il legno il legno odio il legno lo odio)
e sbirciò dentro. Un mugolio, uno stridio, ma non vedeva niente. Attese che le pupille si dilatassero e si ritrovò a contemplare due corpi che si contorcevano vorticosamente nel buio, un doppio che si riduceva al singolo e via verso l'annullamento. La figura maschile si divincolò da quel guazzabuglio e fissò l'uomo con sguardo minaccioso. Che cazzo stai facendo?
Forse gli piace guardare, esordì la donna con voce roca.
L'uomo rimase un momento impietrito. Poi richiuse la porta con un botto e si allontanò veloce nel corridoio. Riprese fiato, si guardò attorno e proseguì verso il piano superiore della locanda. Stanza diciassette: bussò ma non rispose nessuno. Entrò.
Una scatola umida, il prigioniero dentro la scatola. Spoglia, puzzolente, giunture fradice, fili della corrente che cadevano molli dal soffitto e disegnavano archi in quella fredda ricostruzione geometrica. Gettò i bagagli e lo zaino per terra.
Adocchiò certe fotografie in bianco e nero dentro cornici sottili. Tracce di altri passeggeri e di altre vite e di altri visitatori adesso sparsi in qualche dove. Essere uno di loro. Volti anonimi e sorridenti, testimonianze di un passato senza importanza. Come a ricordare agli spettatori che niente lascia il segno in eterno. Né le idee né le persone né la loro arte.
Bellezze evaporate con il tempo, pescatori in gilet e berretto, amanti, famiglie, discoli e discole. Preghiere senza interlocutori, desideri mai avverati, parole sconnesse e prive di significato. Le fotografie sono solo indizi, impressioni luminose su celluloide.
Nient'altro.
Iniziò a vagare per la stanza, il suo lento incedere e lo scricchiolio sulle assi del pavimento. Sul muro era appeso un dipinto su tela. Un bambino in lacrime davanti a una vetrata, intento a osservare il panorama mesto e malinconico. Gli ricordò la sua infanzia e il modo in cui l'aveva vissuta.
Guarda, guardate: quel bambino sono io.
Mi rivedo bivaccato sul lurido tappeto in soggiorno di fronte allo schermo bombato della televisione. E mia madre che lavora ai ferri e quella sensazione di nausea. Sprazzi di vita in un pomeriggio grigio e tempestoso. Fuori il vento è un continuo, assordante, tonante, boato. Rivedo un bambino incurvato sui libri, tra i banchi di scuola, tra cartacce appallottolate che descrivono orbite ellittiche nell'aria. Un bambino immerso nell'odore di inchiostro. La lamentosa lezione della professoressa di letteratura inglese, il libro aperto a pagina due-sei-tre, avete capito? Aprite il libro a pagina duecentosessantatre. Due-sei-tre, ragazzi, William Wordsworth. Wordsworth? Preferisco Coleridge, ma il programma è questo, dobbiamo studiare questo, dovete studiare questo. Il bambino annuisce poco convinto.
Sì, sì, ero io, ero. Sì. Quel bambino ero io.
Mi rivedo di nuovo di fronte allo schermo bombato della televisione. Nausea nausea nausea. E ancora nausea.
L'uomo si sdraiò sul materasso e rimuginò per qualche tempo. Aveva da fare i conti con un'altra notte infinita. Socchiuse gli occhi e cercò di concentrarsi, fece un lungo respiro e poi un altro e poi un altro ancora. Attese l'alba, attese che la luce cancellasse i tormenti e i crucci e le angosce.
Attese.
Chi bussa alla mia porta?
Emerse da un sonno agitato come un palombaro senza ossigeno di ritorno sulla terraferma. Nel sogno, che aveva dimenticato, presiedeva una perversa cerimonia religiosa: parlava ai credenti, condannava gli apostati, puniva i sacrileghi. Sbadigliò e stirò i muscoli. Gli era sembrato che qualcuno stesse bussando, ma il corridoio era deserto.
Un raggio di luce penetrò dalla tenda e si poggiò delicato sulla lampadina fulminata dell'abat-jour. La fece brillare. Sembrava gridasse che ognuno aveva la sua personale occasione per redimere i peccati, che la speranza era ultima a morire.
Sentite. Il dogma afferma questo, il dolore implica la cicatrizzazione. Ma non funziona così con il caso Dreyfus e, a dire il vero, non funziona così con niente. Ascoltate: il dolore dischiude semplicemente l'astio, la malvagità e la ferocia nei confronti delle crudeltà subite. E ti costringe a misurarti con te stesso, a pareggiare i conti con la tua coscienza. Non è sempre facile.
Occhieggiò il comodino. Ai suoi piedi c'erano bottiglie di birra vuotate, cartacce, grumi di polvere e poco altro.
Fece una doccia veloce e ispezionò l'isola.
Per strada tutti lo squadravano con sguardi torvi, uno straniero forse pazzo, sicuramente fuori posto. Decise di dare una controllata alla biblioteca. All'ingresso c'era uno stupido pappagallo.
Il suo indice scorreva sulle copertine dei libri. Kundera, Conrad, Roth, Dickens, Dick. Si fermò su un volume finemente rilegato, azzurrino, la descrizione in quarta copertina che diceva «il libro di viaggio per eccellenza». Bruce Chatwin, In Patagonia. Sfogliò qualche pagina e lo richiuse disinteressato.
Ritornò alla sua cavalcatura e riprese il giro di perlustrazione. Fu richiamato da un gran frastuono, dal nitrire scomposto e scalpitante dei cavalli, dal rumore delle funi in tensione, dal tetro, disordinato e irregolare vociare della folla sparpagliata. Anonime silhouette nella strada là in fondo, i loro movimenti meccanici, impacciati, poco aggraziati.
L'uomo interrogò un vecchio seduto sui gradini di una casa. Turisti, rispose quello. L'estate è finita da un bel pezzo. È già incredibile che abbiamo aspettato l'inverno per andarsene. E chissà quando torneranno, diavolo.
Quella sera bussò alla sua porta un omuncolo basso e tozzo, pancia sporgente, giacca bianca e cravatta a scacchi. Baffi lerci.
Sono Jacob Lasseter, disse all'uomo porgendogli la mano. Piacere di conoscerla. Lei deve essere...
... Claythorne, sì. Philip Claythorne.
Capitolo terzo
Chi sono? Dove sono?
Poggiò le dita sulla tastiera della macchina da scrivere e iniziò a battere. Il ticchettio degli ingranaggi, le molle che scattavano.
Credo di saper rispondere almeno alla prima domanda. Sono Philip Claythorne, texano, umili origini, taglialegna fino all'età di trentanove e poi sbirro. Tutto sommato è stata una vita nella norma, la mia. Qualche disgrazia, d'accordo, ma a chi non capitano? Questo fino al caso Dreyfus, cioè qualche mese fa. Ho deciso di tagliare i ponti con il passato e di ritirarmi in solitudine. Qui, a Kunstwollen. Questo risponde al secondo quesito e chiarisce anche il come.
Scriverò le mie memorie. Se lo sto facendo, beh, lo sto facendo solo per me. Non mi aspetto che qualcuno legga i deliri di un povero vecchio. Di un povero vecchio pazzo pieno di rimpianti.
Ma se volete, vi prego, leggete, prendete la mia mano.
Scappate.
Il fatto era semplice. Kunstwollen non era un luogo adatto per dimenticare. Kunstwollen era immobile, inamovibile. In un posto del genere potevi solo ricordare.
Quando non aveva nessuna faccenda da sbrigare vagava solitario per le coste sassose dell'isola. Nelle sue lettere Holmes lo pregava continuamente di ritornare e lo teneva aggiornato sulle condizioni di Tabitha. Ordinaria amministrazione.
L'odore della salsedine che penetrava nelle sue narici. I sassi che crocchiavano sotto i suoi piedi. Le onde che venivano, che andavano, che venivano, che andavano. Antiche grotte dove pescatori eroici avevano messo a riparo le carene delle loro barche durante le tempeste. Transenne che vietavano l'accesso. Sentieri tortuosi a ridosso di abissi infiniti.
Non aveva amici, a Kunstwollen. Le sue giornate trascorrevano tra una perlustrazione con Reiner, l'aiuto sceriffo che Lasseter gli aveva assegnato, e un caffè al bar.
Ogni minuto identico al precedente.
Una sera studiò l'orizzonte in lontananza. La tempesta stava finalmente arrivando. Forza per deviare i fulmini e sopportare il boato dei tuoni? Non ne aveva. Confidava nella pioggia. Che lavasse la sporcizia, che lavasse le menzogne, che lo facesse annegare e lo facesse soffrire e lo facesse morire.
Il suo alloggio definitivo era una costruzione diroccata vicina all'estremo confine settentrionale di Kunstwollen. Quasi interamente fabbricata in legno, un solo piano, eppure abbastanza spaziosa. Lasseter aveva preparato la scrivania e anche la targhetta. Philip Joseph Claythorne, sceriffo di Kunstwollen.
Non dimenticare mai il tuo nome, non rinnegarlo.
Lui e Reiner marciavano in attesa della tempesta. La luce filtrava traballante e disorganica dalle fronde degli alberi. Sirene intonavano canti mortali, suoni di tristezza e di silenzio. Reiner fumava una sigaretta, le redini strette nelle mani. Due cavalli e due cavalieri che procedevano sonnolenti sulla pianura, sfiorati dal sole ormai calante, le loro ombre che si allungavano sfuggenti, enigmatiche, e accarezzavano il falasco ai margini della via. Il loro incedere vano, senza senso, senza sosta.
Perché questa sofferenza? Signore, perché? Che non esista un posto dove morire in solitudine, dove dimenticare? Dimmi, Signore, dimmi. Non so, non capisco.
Proprio per niente.
Mai più, mai più.
E il pulviscolo pioveva, fioccava in vortici travolto da una luce eterea. E le assi di legno crepitavano, uggiolavano aride sotto il sole di mezzogiorno. E la mosca volteggiava, piroettava nell'aria immobile con un ronzio bislacco. E l'orologio batteva i secondi, le lancette picchiettavano instancabili. E fuori dalla finestra Kunstwollen giaceva, giaceva immobile, giaceva.
Per sempre, per sempre.
E i rimpianti bussavano alla porta, perché fuori la tempesta si stava avvicinando. E i rimpianti ricordavano che mai più, mai più l'uomo avrebbe commesso altri errori, perché il tempo stava scadendo. E i rimpianti ricordavano il giuramento, perché per sempre, per sempre sarebbe rimasto valido.
Esistere, esistere.
Perché esistere significava resistere. Perché esistere significava lottare. Perché esistere. Perché. E le ali della mosca continuavano a mulinare e il pulviscolo continuava a cadere e l'orologio continuava a girare e le assi di legno continuavano a scricchiolare. Perché esistere significava continuare.
Davanti a una tazza di caffè fumante. A studiarne la consistenza e il colore. Denso, amaro, nero. Ti ci puoi perdere dentro. Granelli di zucchero che rotolano come massi e si sciolgono in quel mare oscuro. Dolce che si disperde, dolce che evapora. Nero, nero, nero.
L'uomo inghiotti quell'oscurità bollente. Il caffè gli lasciò sulla lingua una strana sensazione di insensibilità. Fuori era arrivata la notte, e laggiù il cielo era squarciato da una ferita cremisi.
La barista gli si avvicinò. Non è sempre così, disse.
Eh?, fece l'uomo destato dal suo sonno della ragione.
La barista sorrise indulgente. Non è sempre così, dico.
Il bar?, domandò l'uomo appoggiando il mento sui polsi.
L'isola. Ormai sta arrivando l'inverno e stanno arrivando le tempeste. I turisti hanno paura che qui si rimanga isolati. Se non si dovessero abbassare i venti, beh, allora non attraccherà più nessun battello.
Quanto può durare? Questa situazione, intendo.
Dipende. A volte anche mesi, disse la barista inarcando le sopracciglia con aria buffa.
C'è dell'altro caffè?
Certo.
E così avevano interrotto ogni forma di comunicazione con la terraferma. Il battello era ormai solo una lontana reminiscenza di un passato migliore. Il vento modellava onde dalle forme mostruose, terrificanti mandibole schiumose striate di blu cobalto. Pezzi di carta che volteggiavano impazziti nell'aria, gente con impermeabile e guanti e berretti di lana. Il freddo disgraziato.
Una notte continuò a torcersi sul materasso sudicio per un doloroso crampo allo stomaco, una certa sensazione di inadeguatezza, di terrore, di ansia. La tempesta era arrivata e prometteva apocalissi: prometteva fiumi di sangue. Un presagio dell'avvenire.
Si alzò, e nel soggiorno studiò sonnecchiando la consistenza delle fiamme che ardevano nel camino. Così volubili. Così incerte.
Ricordò di quando aveva tredici anni. Il mondo era così grande, allora. Ricordò il legno. L'odore del legno. Il colore del legno: rosso scuro come il sangue. Odiava il legno. Suo padre l'aveva detto, che era davvero l'acquisto migliore che potessero fare per mamma.
Era stato l'uomo con la bombetta nera ad avvertirlo. Adesso non ricordava cosa gli avesse detto di preciso, ma allora aveva pianto. E le lacrime avevano rigato il suo volto tante notti e tanti giorni e di nuovo tante notti. Ricordare, ricordare: faceva male.
Eppure l'immagine ritornava: l'immagine della bara in soggiorno.
Eppure l'immagine ritornava: l'immagine di suo padre che si chinava e gli parlava.
Eppure la sensazione ritornava: l'odore acre del suo dopobarba.
La bara in soggiorno era del legno più pregiato che esistesse. Suo padre l'aveva detto: era davvero l'acquisto migliore che potessero fare per la mamma. E la mamma era immersa nel legno, e lei stessa era il legno, e lei stessa era la fibra.
Madre nella bara, bara con dentro la madre.
Lui odiava il legno della bara. Aveva tredici anni, era un tipo innocente. Philip Claythorne sarebbe diventato uno sceriffo folle, paranoico, pieno di rimorsi: chi l'avrebbe mai detto? A Philip Claythorne sarebbe cresciuta la barba e i suoi capelli sarebbero diventati brizzolati: difficile meditare su certe cose a tredici anni.
Affogò ancora nel ricordo e ricordò di suo padre. Anche lui un tipo innocente. Al padre sarebbe morta la moglie così, letteralmente all'improvviso: chi l'avrebbe mai detto? Da quel momento il padre sarebbe uscito del tutto fuori di senno, e avrebbe reso un inferno la vita del figlio: sul serio, chi avrebbe anche solo potuto immaginarlo? Ma era andata esattamente in quella maniera.
Segnate: mai giudicare dalle premesse.
Un altro ricordo: All along the watchtower alla radio e suo padre che lo chiamava. Gli aveva detto di prendere le sue cose perché avrebbero passato la notte fuori casa. Forse tutto il fine settimana.
Dobbiamo scappare, aveva aggiunto balbettante e agitato.
Avevano iniziato percorrendo la diciassettesima strada, poi avevano imboccato la via per Yozirtown all'incrocio con la Main. Ricordò le sirene e la volante della polizia alle calcagna, e suo padre che smontava dalla Camaro familiare per parlare con l'agente.
Solo una multa per eccesso di velocità. Continuò a ricordare: buchi neri della memoria che rigurgitavano immagini, suoni, sensazioni. Rievocò quelle dannate curve e la Camaro che sussultava, rievocò quella serie infinita di tornanti, rievocò suo padre che premeva sull'acceleratore con incredibile violenza, rievocò il suo grido straziato. Per favore, fermiamoci! Non ce la faccio più!
Abbiamo fretta. Non possiamo fermarci, aveva risposto distrattamente il padre.
Soffriva di mal d'auto, a tredici anni. Perché le strade non erano tutte dritte? Le gomme stridevano ad ogni curva, il rombo del motore era sempre più assordante... e si era ritrovato a vomitare sulla moquette una sostanza liquida e filamentosa, incolore. Suo padre non aveva detto niente, si era limitato a scrutare la strada, i tornanti che li separavano da Yozirtown.
Signori e signori: ricordo, ricordo fin troppo bene. Non è piacevole. Yozirtown era un non-luogo, e io non esistevo agli occhi di mio padre.
Seguitemi:
All'imbocco di una galleria avevo chiuso gli occhi. Avevo tanto sonno. Poi mio padre mi aveva parlato: mancano ventitré chilometri, Phil.
Per me erano un'eternità.
Guardate:
L'auto era vecchia e rumorosa. I sedili in pelle erano rovinati, la leva del cambio spoglia, scarna, e il pedale della frizione cigolava ad ogni cambio di marcia.
Da chi scappiamo?, avevo domandato timidamente.
Scappiamo e basta, aveva risposto mio padre. Poi aveva sospirato, mi aveva guardato negli occhi e aveva sorriso. Vuoi qualcosa da mangiare?
Ho appena vomitato, avevo sussurrato.
Una Coca, magari. Più avanti c'è un fast-food.
Avevi detto che non potevamo fermarci.
Mio padre mi aveva studiato con uno sguardo di rimprovero.
Sei già stato qui?, gli avevo chiesto.
Forse sì. Forse no. Forse.
Lentamente avevo iniziato ad addormentarmi.
Seguitemi:
Quando mi ero svegliato l'auto era ferma in una stradina secondaria di Yozirtown, ed era vuota. Avevo preso a cercare mio padre nei dintorni, tenendo sempre d'occhio la Camaro. La stradina era lunga e stretta: da un lato un muro altissimo, dall'altro una recinzione di filo spinato. Di mio padre nemmeno una traccia.
Ricordai del sole alto nel cielo, della calura, del sudore: di me che camminavo chiamando e urlando, di quel muro a fianco che sembrava infinito, della mia disperazione e angoscia.
E poi, all'improvviso, la felicità di rivedere mio padre laggiù, accanto alla Camaro ormai parecchio distante. E io che gridavo, che lo chiamavo, che lo invocavo, che piangevo dalla gioia, che correvo per raggiungerlo. E lui che nemmeno mi considerava, che montava sull'auto e che si allontanava lasciandosi alle spalle nient'altro che un polverone.
Quella era stata l'ultima volta che avevo visto mio padre.
Guardate:
Ero solo a Yozirtown, il confine della solitudine, una cittadina che non esisteva. Avevo iniziato a parlare con il muro alla mia destra: era alto e meritava rispetto. Era il mio migliore amico, il mio confidente, il mio genitore. Costeggiava tutta la strada: non mi avrebbe abbandonato mai.
All'ombra del muro, quando il sole era un poco più basso, avevo preso a sonnecchiare.
Venite con me:
All'alba del nuovo giorno avevo intrapreso una lunga camminata per scoprire dove finisse quella strada, dove finisse quel muro. Mi piaceva: era una strada dritta, come le avrebbero sempre dovute fare, senza inclinazioni, senza tornanti, perennemente uguale a se stessa.
Vivo qui da quando sono nato, mister Claythorne, gli disse Reiner un giorno, e mi sono fatto un'idea. Questo posto puzza. Lo amo e lo odio. Non è facile, non so esprimermi bene. Il fatto è che proprio non lo capisco. Questo amore odio, intendo. O almeno, ne colgo solo segnali sparsi, non riesco a sbrogliare la matassa. Certi avvenimenti strani. Ci sono in ogni piccolo paese, d'accordo, anzi ci sono dappertutto, solo che nei piccoli paesi le voci corrono. Però rimangono degli interrogativi. Le persone, ecco, non sono brave persone. Non è solo un'impressione.
La nostra è una comunità estremamente chiusa. Chiusa dal punto di vista delle frontiere e dal punto di vista della mentalità, se capite cosa intendo. Perché non intensificare gli sbarchi del battello? Saremmo più vicini al villaggio portuale di Quahog, in fondo. Più vicini al mondo.
Vi ho detto che amo e odio questo posto. Lo odio perché non ne sono mai venuto fuori. I miei genitori sono morti quando avevo dodici anni, e il tempo è passato velocemente in solitudine. È come se esistesse una forza magnetica. Non te ne accorgi se non vivi qui da tanto. Kunstwollen è il polo negativo, io quello positivo. Attrazione, e non riesco a distaccarmene. Eppure vorrei andarmene con tutte le forze, mister Claythorne, con tutte le forze.
E, allo stesso tempo, amo questa attrazione.
Non mi sto contraddicendo, là fuori il mondo è grande e grosso e cattivo. Il continuo ripetersi di banali eventi quotidiani, a Kunstwollen, è la più potente droga che possa dare contemporaneamente assuefazione e tranquillità.
Da piccolo aveva una bicicletta. Finiture cromate, cambio a diciotto velocità, telaio di alluminio. Forse non era il massimo, ma lui la adorava. Una mattina la appoggiò al cancello di una grande magione e fece un giro nei paragi.
Ritornò e la bicicletta era scomparsa.
Capitolo quarto
Fine della tempesta. Tutto ritorna alla normalità.
Il battello, il battello.
Riverbero all'orizzonte, vapore che si innalza a intermittenza come segnali di fumo (e a chi sono rivolti?), e pale che rimestano quell'intruglio salato. Due suoni che si alternano, trombe (e orchestre?) nel silenzio della mattina.
Il battello, il battello.
Vedi? Funi sfilacciate e nodi scorsoi: stringono pioli di metallo: e freddo è tutto intorno: e freddo è il vento - anche lui inquieto, anche lui senza meta. Sferzate: il vento che sferza. Turbinio, i suoni del vortice.
Il battello, è il battello.
Nasce la sua immagine, è distorta. E cresce: ingrandimento. Guarda, il battello. Notizie, notizie. Ascolta, il battello porta notizie. Un mucchio di persone riunite intorno al molo, il loro sguardi rivolti verso il mare laggiù, cristallizzati dall'attesa.
L'uomo guardava dalla finestra. Scostò la tendina. Montò sul cavallo e fiancheggiò un ruscello, scrutando di sbieco il suo riflesso che si deformava sul filo dell'acqua. Strinse le redini. Goccioline di sudore che gli imperlavano la fronte, cupole luminescenti e quasi abbaglianti, diamanti tra rughe e pori. Fibra sfibrata, lenta decomposizione.
Visioni: vermi che banchettano nel tuo cervello. Sono così: io sono solo corpo, e corpo è finitezza, corpo è fine.
Il battello, il battello.
(e con il battello notizie)
Venne fuori il postino, uomo un po' grigio in un vestito un po' grigio. Una valigia di pelle nelle sue mani un po' grigie. Studiò la folla con uno sguardo un po' grigio e sistemò, con un dito abbastanza grigio, gli occhiali sul naso.
Infilò le mani nella valigia e rimestò per qualche tempo. Estrasse un pugno di lettere. E iniziò a chiamare: lettere per Dayna Jurgens, lettere per Clare e Querelle Fassbinder, lettere per Jacob Lasseter, lettere per Philip Claythorne.
L'uomo gli si avvicinò, prese le lettere, gli allungò un dollaro e si allontanò. Erano tre fogli ingialliti scritti a mano con una grafia obliqua, ricurva, aggraziata. La firma in calce riportava «John Holmes».
Holmes, vecchio pazzo. Non ti sei dimenticato di me, non tu.
L'uomo lesse l'ultima lettera, la più breve. È finita, diceva, è finita. Ti ho scritto, non hai mai risposto. Adesso è finita. Dovresti ritornare, amico. È finita. Tabby è morta.
Deus ex machina?
Chi governa le nostre esistenze?
Dì addio ai tuoi sogni. Non scriverai le tue memorie. Ritornerai da dove sei venuto e onorerai i morti. Questo è il tuo destino.
Non scriverai le tue memorie: hai vissuto la tua vita per dimenticare e desideravi di essere ricordato? Desidera solo di ritornare alla terra, e sii fedele alla terra. Non tradirla.
La donna della bettola. Qualche volta ripensi a lei. Che fine abbia fatto non lo sai. Quando la notte non riesci a dormire allora tiri le somme, fai il bilancio della tua vita.
Hai giocato a un gioco del quale non conoscevi le regole, ecco tutto. Non ti eri preparato. È stata una lunga discesa verso le tenebre. Adesso sai cosa farai. Nel tuo futuro vedi un cappio intorno al tuo collo. È così che deve andare. In una vita dominata dalla morte, la morte è l'unica affermazione di vita.
Sì, tu vivi.
I bagagli erano ammassati lì, in un angolo. L'uomo sprofondò nella poltrona. Si alzò, lucente, una nuvola di pulviscolo.
Verso il porto. Il percorso che si allungava alle sue spalle, il cielo che andava schiarendosi. Jacob Lasseter si era preparato e lo stava attendendo al molo.
Ci rivedremo?, gli domandò.
Forse, rispose l'uomo. Ma non qui.
Sul battello: la via del ritorno. Si assopì e sognò.
E nel sogno era un prigioniero che attendeva l'esecuzione. Le guardie lo scortarono verso l'atrio. Lì si sarebbe tenuto il processo. Appena lo videro arrivare, tutti i giurati si ammutolirono, accavallarono le gambe e lo scrutarono a braccia conserte. Annuivano, si scambiavano occhiate di approvazione o di indignazione. Anche le guardie armate si arrestarono ad ammirare con rispetto e riverenza la sacralità del momento.
Mattoni rossi, neri, grigi, di ogni colore, rivestivano le pareti dell'atrio. Gelide folate di vento affievolivano a intermittenza la luce delle torce appese al soffitto, mentre i presenti attendevano l'inizio dello spettacolo. Si infagottavano nelle loro giacche o negli impermeabili, imprecavano, fumavano, bestemmiavano. L'uomo si incamminò tra le file di sedie preceduto dalle guardie e con difficoltà si arrampicò su un palchetto di legno allestito per l'occasione. Fu legato ai bracci di una sedia sistemata su una botola rettangolare.
Dal palchetto osservava gli astanti. Comprese solo in quel momento la loro vera natura. Erano bestie. Davanti a sé c'era qualche leone e due o tre asini. Al centro riusciva a scorgere degli agnelli. Notò anche qualche maiale, abbigliato di tutto punto con giacca e cravatta a ghirigori. Nei corridoi, scalciando e sbuffando, vide aggirarsi dei tori e subito dopo schiere di oche austere e compite. Alcuni cavalli nitrivano nelle retrovie e un gran numero di galline saltellava intorno ai loro zoccoli.
Vi considerate innocente? gridò un maiale.
L'uomo fece per rispondere, ma fu sopraffatto all'istante da una voce ben più squillante. Era un fastidioso gallo appoggiato alla parete. Aveva un'irritante inflessione femminea.
È colpevole, disse. È lapalissiano.
L'atrio venne giù dagli applausi.
Al voto, nitrì un cavallo.
La giuria iniziò a confabulare guardinga. Discutevano tra loro con l'aria di chi-sa-troppo, ognuno stringendo tra le mani rattrappite dal freddo un foglio saturo di appunti e scarabocchi. Talvolta qualcuno di loro si drizzava in piedi e declamava pomposo il proprio punto di vista, o si protendeva in avanti sulla sedia per ascoltare meglio.
Un agnello parlò per primo. In definitiva voi siete colpevole, disse in modo teatrale.
Sollevò una zampa e segnalò qualcosa alle guardie. La botola sotto la sedia si aprì con uno schiocco e l'uomo si ritrovò a cadere nel vuoto. I presenti in sala applaudirono ancora.
Precipitava. Vorticava legato alla sedia in un condotto circolare, buio e puzzolente, eretto verticalmente e forse senza fine. Le pareti erano di metallo lucente. Ogni tanto delle luci baluginavano nell'oscurità per un attimo, quindi si spegnevano sommessamente. Lucciole?
I secondi che precedevano lo schianto assunsero la consistenza di interi anni nella concitazione della caduta. Tutto intorno il mondo vibrava.
Si svegliò e il battello aveva appena attraccato.
Sei ritornato, amico.
Sono ritornato.
Parla con me.
Perché? Non è forse tutto finito?
Tutto finisce. Tutto finirà. Non è questo il giorno.
Tabitha è morta.
Tu sei morto?
Più morto che vivo.
Più morto che vivo?
Sì.
Perché?
Sono stanco.
Sei stanco?
Sì.
Perché?
Perché cosa?
Perché sei stanco?
Non lo so.
Tutto si sistemerà, Phil.
Ci rivediamo, John.
Dreyfus, Dreyfus, dimentica Dreyfus. Forse tutto era cominciato con Molly Dreyfus che pedalava solitaria sul margine destro della strada con un giornale stretto tra i denti e una lattina di Coca nel portaoggetti e la testa piena di sogni e lo sguardo rivolto verso casa e i suoi respiri profondi e regolari e i muscoli contratti e le unghie lunghe e una strana melodia nell'aria.
Molly Dreyfus che pedalava quasi non ci fosse un domani, il vento che la sospingeva leggiadra.
E io che stringevo la cintura e CLACK! premevo la frizione, innestavo la prima e un boato, frizione, seconda, acceleratore, frizione, terza quarta quinta e la strada davanti. Sarei arrivato di nuovo in ritardo, a lavoro.
Da allora avrei puntato sempre la sveglia alle cinque e quarantasette, come quella mattina. Elaborazione del lutto: è una cosa personale, e vale anche per me.
Certi momenti mi pare di sentire il suo respiro, di notte, e ho un po' di paura. A volte passa. Altre volte è peggio.
Molly Dreyfus. Ricordo, sì, ricordo tutto per filo e per segno.
Lo stridio dei freni i pedali della bici che giravano a vuoto il sangue sull'asfalto. Ricordo ogni cosa. Vorrei dimenticare.
Forse tutto è cominciato con Molly Dreyfus. Cazzate. Tutto è cominciato con il mio primo respiro, con i miei primi passi in questo accampamento dei dannati.
Le albe? Inganni. Non esistono nuovi inizi.
Certi momenti mi pare di sentire i respiri rochi del mondo, di notte, e ho un po' di paura. A volte passa.
Altre volte è peggio.
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