Era la seconda metà degli anni '70. Imperversavano gli eskimo con le clarks e le gonne di cotone stampato a fiorellini, sotto le quali spuntavano gambe gialle, cobalto o anche color ramarro, ai piedi zoccoli di legno e cuoio.
Non facevo eccezione a questa moda giovanile, così come mi attenevo alla comune scansione del tempo.
Giornate divise tra lavoretti per pagarsi i libri, mattine in università a seguire lezioni, pomeriggi di seminari di psicologia e letteratura, riunioni del collettivo femminista, manifestazioni, cene improvvisate nelle case di chi veniva da fuori a studiare qui, nel capoluogo.
Le ore serali passate davanti a bicchieri di vino, in bar dell'angiporto.
I clienti abituali, dal naso e dalle gote rubizze, ancorati al bancone, quasi a difendere, con le unghie orlate di grasso a stringere il gotto, le loro postazioni da questa invasione di alieni/donna, per giunta.
Noi che si parlava a ruota libera accogliendo nelle nostre discussioni tutto quello che ci girava nel cuore e nella mente: le nostre madri, il diaframma e la pillola, gli uomini e i padri, Il Secondo Sesso e la Von Trotta, l'aborto e il parto in casa, Virginia e Sibilla.
Anche in questo non differivo ma mi rendevo conto che qualcosa non andava o, meglio, che qualcosa mancava: per l'esattezza era il mondo del lavoro, l'esperienza dello stesso di cui eravamo deficienti.
Da lì a poco avrei saputo di avere ragione.
Avevo chiesto ad un' amica disoccupata, senza titolo di studio superiore, separata e con una bambina piccola, una diciamo "esterna" al nostro limbo universitario, di parlarci dal vivo della sua esperienza di precaria questo perché un settimanale femminista, sul quale alcune di noi scrivevano, ci aveva chiesto un contributo per una inchiesta sul lavoro precario delle donne nel terziario.
Arrivammo nell'aula al piano terra di Lettere dove si teneva la riunione del collettivo, giusto per trovarci nel bel mezzo di una disputa tra due a proposito di cinema e psicoanalisi: le fanciulle risultarono incapaci di rientrare dalla foga che le animava. Tutt'intorno, sembrava che nessuna si rendesse conto della presenza della mia amica : eravamo praticamente trasparenti.
Tentai più volte di riportare l'attenzione su quello che era il nostro impegno, senza riuscirci; fui presa così da un senso di frustrazione, umiliazione mista a rabbia, al punto da chiedere alla ragazza che era con me di andarcene.
Non rimisi più piede al collettivo.
La settimana successiva mi arrivò comunicazione che avevo vinto uno dei numerosi concorsi fatti e che ero stata assunta a tempo indeterminato.
Avevo fatto un doppio salto.