Credevo che l'ira potesse spezzarmi le braccia, rinsecchire la gola e storpiare lo sguardo. Mi ha travolto all'improvviso, tra i miei deliri e le mie corrose dedizioni, mi ha tagliato il giudizio che non ho e ha schiacciato l'aria. Compressa, repressa, sommessa nel freddo e nella notte stridente. Avevo un fiume di parole, ma non potevo dirne nemmeno una, piccola che fosse, talmente ero bruciante, dentro. E più mi si chiedeva, più diventavo muto; e più mi si insisteva con lo sguardo, più io di rimando dovevo, dovevo fissare. Era per ribellione forse, o forse ancora per rabbia, ma non mi importa. Ciò di cui c'è bisogno è volare via. - Nella mia innocenza mi nutro di danzanti corpi ammantati di quell'amore di cui si parla. E li distruggo con mani crudeli. Le mie mani, con le unghie sporche e la mia lingua bastarda. Che poi, ne ho bisogno. Ho bisogno di ogni istante di pentimento postumo, che non c'è. Anche mentre camminavo sulla strada biforcuta, ho visto il cielo farsi - coperto - rosa e scintillante ogni secondo di più. Non aveva più senso quell'ardere, il furore, la cattiva essenza, la critica scurrile. Il lancinante senso di vuoto, il silenzio, il rumore del silenzio, le urla e le grida, la vergogna! Io vorrei vergognarmi ma non posso! Io posso solo, solo, solo vivere come so' vivere ora! La vergogna, la vergogna! - Mi sento morire quasi, e rido della mia grammatica, mentre mi ritrovo a correggerla nella foga di liberare ogni minima sillaba. Ferire. Davvero mi importerebbe? Ferire, amaramente, ferire. Distruggere e guardare la sofferenza. L'ho già fatto, è sicuro. Era crudo, disdicevole, corrotto, rozzo, decrepito, fendente, brulicante di vermi, febbricitante me. Io. Io dovrei ferire ancora. Forse, me stesso. Ma non c'è il tempo, bisogna andare. Bisogna sorreggere la paura e dilungarla finchè ci terrà vivi. E quando tornerò, nessuno; nessuno oserà riconoscermi.