Finalmente ci siamo. Dopo mesi di pranzi consumati in fretta, pomeriggi soleggiati passati al chiuso a fare le prove e serate trascorse a sonnecchiare sul divano, per la troppa stanchezza, tutta l'esperienza che ci siamo fatti la dobbiamo buttare qui, su questo palco. Siamo tutti raggruppati dietro le quinte, reduci di una penosa prova generale, con i vestiti di scena e il trucco troppo pesante. La salivazione è a zero, la memoria è solo una spirale nera e profonda. Scanso appena la pesante tenda di velluto rosso per sbirciare quante persone stanno affollando la sala. Accidenti, la platea è piena! Alzo lo sguardo... i palchetti e il loggione non sono da meno. Piacerà lo spettacolo? Apprezzeranno il fatto che il testo l'abbiamo scritto noi? Riusciranno a capire qualcosa di come abbiamo cercato di ricostruire gli eventi che hanno portato all'unità d'Italia? Un'ondata di emozioni mi invade. Non riesco a descriverle, certe cose bisogna provarle. Il chiacchiericcio in sala non si è ancora placato. Immagino i più piccoli scalpitare "quando comincia? quando comincia?"; i miei coetanei curiosi di vederci fare qualcosa di così diverso e sicuramente, da qualche parte, mia nonna sta tenendo in mano la locandina e orgoliosa indica il nome della nipote maggiore tra il cast. Immagino mamma e papà, curiosi di sapere se è stata una saggia decisione quella di permettermi di sacrificare interi pomeriggi di studio per dedicarli al teatro. Sicuramente mamma è un po' tesa, si guarda intorno e prende mentalmente nota di tutte le persone che vede. Papà ogni tanto estrae l'orologio da tasca e guarda l'ora. Mi sembra di vederli.
Basta aspettare, basta ripetere le battute, quello che è fatto è fatto. Ci prendiamo tutti per mano, urliamo "merda, merda, merda!" e, cercando di non fare troppo rumore, entriamo in scena. Le tende scure del sipario, così accoglienti e protettive, si aprono e ci lasciano in pasto al pubblico. Parte subito un applauso fiducioso mentre restiamo immobili sotto l'unico fascio di luce presente nella sala.
Sono questi i momenti in cui o affoghi o impari a nuotare. E noi, tutti noi, abbiamo deciso di imparare a nuotare. Le parole, i gesti, le espressioni dei nostri visi e i cambi scena vengono spontanei. Il corpo si muove da solo. Tutto è tornato familiare, il lavoro di mesi è uscito fuori ed è tutto lì, pronto a farci andare avanti, a darci la sicurezza necessaria per dare forma a questo testo, per far prendere vita ai nostri personaggi, che ci hanno lasciato qualcosa di loro e si sono presi qualcosa di noi. Malgrado quello che si può pensare non sono in ansia, sono tranquilla, mi diverto! Parlo con il pubblico, fisso dritto negli occhi gli spettatori, voglio farli immedesimare nel periodo storico in cui anch'io, per mesi, mi sono calata. Sono entrata nel modo di vivere dei personaggi che hanno fatto la storia della nostra penisola, ho cercato di pensare con la loro testa e vedere le cose con i loro occhi.
Le scene scorrono veloci e tutti cerchiamo di dare tutto qui, adesso, perchè le scene non tornano, la possibilità è una e nessuno ha intenzione di sprecarla. In un lampo arriva la mia scena più importante. L'ultima scena di tutto lo spettacolo. Il pubblico, fino a adesso, ha appaludito soddisfatto e, nonostante sia stanca, devo tirare fuori tutta la mia grinta. L'applauso finisce e io avanzo nel palcoscenico pressochè vuoto. Sento i miei piedi portarmi al centro della scena facendo scricchiolare il pavimento di legno. Via! Le battute si susseguono al ritmo giusto, le risposte arrivano puntuali, le parole scorrono da sole, finalmente pronte a liberarsi in un teatro vero e non nella piccola stanzetta che ha assistito le nostre prove. Al termine della battuta finale parte uno scroscio di applausi convinti.
Il sipario si chiude e torna a proteggerci, ma ormai non ne abbiamo più bisogno, siamo forti abbastanza e adesso ne abbiamo la certezza.