racconti » Racconti sulla tristezza » Il cruccio della massaia
Il cruccio della massaia
L'utensile da cucina che sibila scosse i nervi della sua sorvegliante assorta, quasi assopita, nell'osservazione di una specie di limone con la scorza molto grossa, e le scolorì il viso. Lei, che governava con lo scettro quella popolazione gagliarda e ribelle di arnesi dal collo duro e di derrate per molti ospiti, orgogliosa e fiera, si sentì come un asino rinchiuso in un recinto che echeggia di ragli e latrati, tra peli di cavallo moltiplicantisi per cento, da soli, e soffi d'aria calda appena uscita da centinaia di froge appaiate e concordi, su note grottescamente armoniche, come lo scalpiccìo ritmico di un pedinatore.
Alzò gli occhi dal libro dei precetti fondamentali della massaia e guardò l'albero di cachi, i cui rami carichi di frutti gialli e arancioni si protendevano fino a sfiorarle il bucato appena steso, e pensò che ormai erano pronti, come ogni anno, in quell'inizio d'autunno caldo ma non troppo, piacevole dopo la calura estiva, mitigato da leggeri, improvvisi aliti di vento e da voli di nubi bianche, talvolta nere e cupe.
Sì, tutto era come sempre, eppure ogni cosa appariva mutata, meno bella o meno brutta di prima, come se tra le cose e i suoi occhi vi fosse un velo opaco che impediva di godere o dolere appieno di tutto quanto.
Una cataratta lattiginosa e grigiastra s'addensava sul cocuzzolo del monte, poi più giù sui colli ammantati di prati, fino a circondare gli alberi e la campagna, fino all'ultimo pezzettino intorno al pozzo dove sorgevano le prime case come funghi solitari.
Provò pena, ma senza dolore, piuttosto una sorta di contrita malinconia per tutte le cose, per tutto il creato, per una incredibile successione di cose che parevano dimenticate.
Le venne voglia di disegnare le scene dei suoi sogni ad occhi aperti, forme dai colori cangianti come bolle di sapone, aerodinamiche, sculture pronte a spiccare il volo.
Ma lei era solo l'eterna ripetente che l'errore fatale riconduceva punto e a capo, all'origine di un lungo capitolo di storia che mostra le lunghe gambe ma non i piedi, ché non si possa intuirne la direzione e precederla.
Una stoffa per abiti, a piccoli disegni irregolari, catturò la sua attenzione e pensò a un gioco da ricomporre prima di finire in secca, prima che duemilacentonovanta portate diverse pretendessero di essere preparate per rimpinguare le rotondità addominali dei paffutelli commensali.
In quel mentre un insetto stridulo in ricognizione solitaria le suggerì quanto fosse prezioso quel suo girovagare, ed ebbe pietà del lucertolone verde smeraldo immobile nella gabbia di vetro con l'unico scopo di dar pregio alla collezione di rarità faunistiche messa lì ad ornare la loro mancanza d'allegria, una mancanza che le fece dolere il cuore.
Un carro di sette stelle era apparso, così nitido da parer vicino, ma era solo un atto di filantropia divina a sollevarlo dalla cavità impressionante del vuoto.
Ingabbiata e distante come il marinaio nella coffa, scrutò l'orizzonte di uva passita tra collinette di farina e zucchero stranamente bucherellate, come spugne, di sciroppo di acqua, zucchero e rhum, ineluttabile aroma di dolci autunnali.
Ricordò d'aver trascorso gli ultimi dieci anni della sua onirica esistenza seduta in poltrona vicino alla stufa, nelle sere d'inverno, sulla sedia di paglia sul balcone, in quelle estive.
E così il tempo le si era srotolato davanti passando inosservato, come sempre fa un tempo che si rispetti, tanto che alla fine non si può provare altro che un profondo stupore e un lieve disgusto.
Frutti bianchi e neri occhieggiarono dal centrotavola di tela grossolana, un mazzetto di erbe aromatiche agitava le piccole fronde sporgenti dal davanzale, e le sembrarono cose ricche di sentimento, come l'aroma del dolce autunnale che ora si sprigionava caldo e fragrante, come le sue dita coi mucchietti di farina ancora attaccati ai bordi delle unghie, come il rosseggiare degli ultimi pomodori, e il tamburello munito di sonagli recante ancora l'impronta dell'artefice... un ricordo privato, qualcosa di personale... allora lei era dall'altra parte della barricata, dove vivono gli ostentatori di sé come vini pregiati in bella mostra sui seggi regali in velluto rosso, imponenti, sontuosi, inzuppati di saccenteria e onnipotenza, pericoli pubblici come i batteri per le ferite non disinfettate.
E ora lei era come una ferita non disinfettata, profonda, dolorante, ma non provava paura, né sgomento alcuno, anzi si sentiva una leonessa, credeva fortemente... era come un impulso che arrivava da profondità remote, come un incantesimo buono foriero di doni benigni, perchè i suoi timori lasciassero il posto alla sottile consapevolezza che ciò che lei faceva, ciò che pensava, tutto ciò che lei amava era unico, irripetibile.
Avvertiva una strana ma certa affinità con le cose tutte del creato, si sentiva parte di esse, dal fiore che ondeggiava alla brezza della sera, all'arnese da cucina che con il suo sibilo l'aveva scossa dal sonnecchiare vuoto per ricordarle i suoi doveri.
Sollevare il coperchio borbottante aveva la medesima importanza dello sfregare energico di due sassi tra le mani ruvide e callose dei suoi avi, tanti tanti anni prima, e senza il quale lei ora non sarebbe stata lì tranquillamente seduta accanto a una minestra in ebollizione, a un forno arroventato per sfornar delizie, nell'ombra della sera, nell'incanto di stelle fulgide di speranza.
12
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0