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Il Ritorno del Re
Pete Darner inserì la ID card nella stretta fessura dell'Access Checker ed attese che il vecchio processore di quella scatola di latta completasse i controlli di rito. Infischiandosene del cartello che proprio accanto a lui ammoniva di non fumare tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un pacchetto di Lucky Strike e s'accese una bionda, ispirando veleno con il tipico piacere masochistico del fumatore incallito.
- Sto fumando! - gridò, e la sua voce echeggiò nel vuoto atrio d'ingresso della Cryosleep - Arrestatemi, teste di cazzo!
Naturalmente nessuno l'udì; a quell'ora tutto il personale era a casa da un pezzo, e la Cryosleep aveva da parecchi anni sostituito i vigilanti umani con programmi di sorveglianza automatizzata molto meno dispendiosi e decisamente più efficienti, quindi Darner era solo là dentro. Certamente le macchine avevano già registrato l'infrazione ed un rapporto dettagliato su quella sua incursione notturna - assolutamente contraria ad ogni regolamento interno - sarebbe prontamente finito sulla scrivania del vicedirettore Grady, ma di questo non gli importava nulla poiché aveva già deciso di licenziarsi. Avrebbe messo su un locale assieme a suo fratello, di lì a poco, culi e tette di belle ragazze ubriache avrebbero sostituito il grigiore asettico di quel posto cui aveva regalato fin troppi anni di vita. Prima però doveva svegliare qualcuno, e doveva farlo quella notte.
- DARNER PETER. - gracchiò finalmente la voce asessuata dell'Access Checker - TECNICO DI CLASSE ALFA ADDETTO ALLA MANUTENZIONE DELLE CAPSULE. ACCESSO CONSENTITO.
Un'inferriata d'acciaio - elettrificata fino a pochi istanti prima - si spalancò per lasciarlo passare, Pete avanzò nello stretto corridoio illuminato da luci al neon rettangolari che conduceva all'Area Sette. Un'altra porta, in kevlar, gli si aprì di fronte al termine del tragitto, Darner questa volta l'attraversò un po' meno spavaldo di prima. Stava rischiando grosso, e lo sapeva bene.
L'enorme stanza alle cui pareti erano fissate le capsule criogeniche assomigliava ad un cimitero cyberpunk, il silenzio era così totale che quasi si aveva la sensazione di poter avvertire il respiro lieve degli esseri umani addormentati dentro quei bossoli di vetro e acciaio. Pete non si era mai trovato in quel luogo dopo l'orario di chiusura, né tantomeno da solo, e la sensazione che la vista di quei corpi immobili e nudi gli trasmetteva era tutt'altro che piacevole. Gli venne in mente che H. R. Giger avrebbe apprezzato una scena del genere; lui invece non vedeva l'ora di essere fuori di lì.
Non impiegò molto a individuare la capsula che stava cercando, era la terza da sinistra addossata alla parete che aveva davanti; dentro di essa vegetava un uomo sui cinquantacinque anni, grasso da far schifo e con radi capelli grigi. Si trattava del Soggetto Sconosciuto numero duecentosei, un disgraziato senza identità che qualche dimenticato benefattore aveva portato alla Cryosleep decenni prima, pagando profumatamente per la sua ibernazione e raccomandando che fosse tenuto in quello stato di coma indotto fino a suo ordine contrario. A quell'epoca Pete Darner non lavorava ancora là, ma colleghi più anziani gli avevano raccontato che Duecentosei era ridotto davvero male, una specie di larva umana obesa capace a malapena di parlare. Doveva aver passato qualche brutto guaio, questo era certo, ma l'uomo che l'accompagnò non volle rivelare nulla su di lui, limitandosi a ripetere fino alla noia che andava trattato con ogni riguardo. Dopo quel giorno quel tizio sparì nel nulla e Duecentosei fu messo a dormire in una bara trasparente, con il tempo diventò una specie di mascotte dell'intera corporazione. Pete Darner, come altri tecnici, gli si affezionò parecchio, arrivando a lambiccarsi il cervello nel tentativo di capire chi diavolo fosse e se mai avrebbero ricevuto il permesso di risvegliarlo. Poi, quella mattina, il suo cellulare aveva trillato e dall'altro capo della linea erano arrivate entrambe le risposte.
"Perché proprio io?" aveva chiesto dopo aver compreso che non si trattava di uno scherzo. "Perché l'ho studiata a lungo, e sono certo che lo farà, signor Darner" era stata la risposta del misterioso interlocutore. Doveva trattarsi dello stesso uomo che aveva accompagnato Duecentosei alla Cryosleep e che gli aveva pagato il trattamento. "So che anche lei era suo fan" aveva aggiunto prima di riattaccare "non mi deluda".
Non aveva intenzione di deluderlo. Pete Darner pigiò un paio di pulsanti sulla consolle del controllo della temperatura, poi posò al suolo la sacca che portava a tracolla e ne estrasse alcuni abiti. Erano per Duecentosei, e sperò che fossero della sua taglia.
- TEMPERATURA INTERNA DELLA CAPSULA IN AUMENTO. - avvertì il computer - CONFERMARE AVVIAMENTO PROCEDURA DI DISIBERNAZIONE.
- Confermata. - Darner premette un pulsante giallo.
- PROCEDURA DI DISIBERNAZIONE INIZIATA. TEMPO PREVISTO PER IL RECUPERO TOTALE DELLE FUNZIONI VITALI DEL SOGGETTO: OTTO ORE.
- Spero che siano sufficienti. - mormorò il tecnico, poi si voltò e lasciò quello stanzone che gli metteva i brividi.
Duecentosei saltò fuori dal baccello criogenico con inaspettata agilità. Inebetito, nudo come un verme e tremante, ristette a lungo a fissare l'oggetto che l'aveva alimentato e protetto prolungando la sua vita oltre i limiti dettati dalla natura. Cercò di capire cosa provasse nei confronti di quella cosa, e s'accorse di odiarla; la percepiva più come una prigione che come una culla, il solo guardarla gli causava una sensazione di nausea. Chiuso là dentro, a galleggiare più morto che vivo mentre il mondo fuori andava avanti
Il mondo fuori. In che anno si trovava, e in quale città? Chi lo aveva liberato, e perché? Ma soprattutto, come accidenti si chiamava e chi era? Le risposte non potevano essere in quel posto da incubo, lo sentiva, per questo infilò i vestiti abbandonati sul pavimento e s'avviò verso l'uscita. Chi l'aveva strappato all'oblio si era premurato di lasciargli aperte tutte le porte, perciò non gli fu difficile fuggire; si ritrovò ben presto al centro di un'ampia strada asfaltata e iniziò a camminare in direzione delle luci che brillavano poco distante. Le gambe gli dolevano per la prolungata inattività, ma non si fermò neppure per un minuto. Non si sarebbe mai più fermato.
Era notte inoltrata quando entrò in un sudicio bar stretto tra una lavanderia cinese e un fast-food chiuso. Il locale era deserto e puzzava di fumo e sudore, dalla cassa di un altoparlante veniva fuori una specie di rumore ritmato simile allo sferragliare delle ruote di un treno.
Duecentosei tirò a sé un alto sgabello e vi si sedette appoggiando i gomiti al bancone, da una porticina comparve un tipo sui trentacinque con una zazzera di lunghi capelli sudaticci e un paio di folti baffi biondi.
- Cosa ti servo, amico? - disse senza degnarsi di guardarlo in faccia. Il rumore metallico cessò e fu sostituito da tre note di violino che si ripetevano all'infinito su un tappeto di pulsazioni dissonanti.
- Tequila. Bella ghiacciata.
Il barista gli posò il bicchiere davanti senza particolare garbo, scoccandogli una significativa occhiata in tralice; Duecentosei intercettò il guizzo di quei piccoli occhi azzurri e indovinò cosa stava chiedendosi l'uomo.
- Non ho denaro. - confessò un po' imbarazzato - Magari potrei ripassare a pagarti appena rimedio qualcosa.
- Come no! E quando pensi di rimediare "qualcosa"?
Duecentosei si rigirò i pollici come se stesse riavvolgendo un filo invisibile.
- Io non lo so. - disse - Potrebbe essere domani, o tra una settimana. O magari tra un mese
- Perché non tra un anno? - rise sardonicamente il barista - Senti, anche se gli affari non vanno granché bene credo di poter fare fronte ad una perdita del genere. Facciamo che offro io, tanto sei il mio unico cliente. Che ne dici?
Così dicendo si versò dello scotch dentro un bicchiere tutt'altro che lindo che poi sollevò davanti alla faccia in segno di buon augurio.
- Alla tua salute! - esclamò
- Alla tua.
Vuotarono i bicchieri in un solo colpo, all'unisono.
- Cos'è quel baccano? - chiese Duecentosei passandosi una manica sulle labbra che bruciavano per la tequila e indicando con un gesto della testa l'altoparlante sopra di loro. Dalle casse adesso stava venendo fuori un fastidiosissimo ronzio intermittente, come se un calabrone gigantesco ci fosse rimasto imprigionato dentro e lottasse in modo furibondo per riguadagnare la libertà.
- È musica. - rispose il barista sgranando gli occhi meravigliato - Questi sono i Chip Chapper. Non dirmi che non li conosci!
Musica. Quella parola lo colpì come uno schiaffo invisibile regalandogli fugaci flashback della propria vita passata che s'accavallarono ben presto uno sopra l'altro fino a diventare indistinguibili. Prima che un'atroce emicrania sgretolasse ogni tentativo di focalizzare l'attenzione sulle immagini mentali che affioravano come relitti dalla melma della memoria Duecentosei riuscì a fermare per qualche istante alcune di quelle scene; vide un bambino bianco di dodici anni che suonava una rozza chitarra di legno tarlato in mezzo a un cerchio di ragazzi di colore e un giovanotto che partiva per il servizio di leva, e poi torme di giovani donne in delirio che si strappavano di dosso la biancheria intima per lanciarla nell'aria come coriandoli. Il tutto durò lo spazio di tre secondi, poi il dolore ebbe la meglio e Duecentosei ritornò alla realtà sbattendo velocemente le palpebre.
- La musica mi piaceva - mormorò - ma non è così che la ricordavo. Questa è strana.
Il barman annuì sogghignando.
- Ti capisco. - disse - Non piace neppure a me, ma sono costretto a metterla su perché di solito questo posto è frequentato da ragazzini che non vogliono ascoltare altro. Personalmente, appena posso piazzo nel lettore qualcosa di completamente diverso tanto per dare un po' di tregua alle orecchie. Ora ti faccio sentire.
Mentre parlava aveva iniziato a scartabellare in una scatola di cartone zeppa di compact disc, molti dei quali giacevano alla rinfusa senza nemmeno la custodia.
- Ecco. - esultò quand'ebbe trovato quello che cercava - Dimmi cosa te ne pare di questo.
I Chip Chapper furono finalmente messi a tacere da una pressione del suo dito sul tasto stop e al posto della loro cacofonia sgorgò fuori dagli altoparlanti una cascata di note che rapì immediatamente l'attenzione di Duecentosei scaraventandolo indietro nel passato più velocemente di qualsiasi macchina del tempo.
- Forte, vero? - domandò il barista - Credo si chiami Mark Knopfler, un musicista morto da un pezzo. Se vuoi il mio parere di gente come questa non ce n'è più oggigiorno; il mondo sta andando a rotoli, e la musica lo segue assieme a tutto il resto.
Duecentosei non lo stava ascoltando, impegnato com'era a battere ritmicamente il palmo della mano sul bancone mentre un assolo indiavolato saettava nell'aria accompagnato dal giro ruffiano ma tremendamente energico di un contrabbasso; quella era musica, non il baccano sconclusionato che l'aveva accolto appena entrato là dentro. Chissà se da qualche parte c'era ancora qualcuno che la suonava dal vivo.
- Sì - disse il barista quando glielo chiese - c'è un buco di night-club dove a volte si esibiscono gruppi che fanno roba del genere, ma devi essere fortunato a beccare la serata giusta. Si chiama Pentagram, sta a qualche isolato da qui. Se lo trovi aperto dì che ti manda Skip Winston, e non faranno storie per farti entrare.
Duecentosei ringraziò Skip Winston e se ne andò. Non aveva scoperto ancora quasi nulla su sé stesso, a parte che gli piaceva la musica. Fuori di lì la notte non pareva per nulla intenzionata a finire, lui si strinse nelle spalle quando un alito di vento particolarmente freddo gli accarezzò i vestiti leggeri e si diresse verso il proprio destino alitando nuvole d'aria che sapevano di tequila.
Il Pentagram era un ampio ambiente dalle luci soffuse con sedie fluorescenti dall'aria per nulla comoda e cameriere seminude che sfrecciavano tra i tavoli su rollers argentati. Dentro teche di vetro incastonate alle pareti facevano bella mostra di sé vecchi strumenti vintage e amenità varie, Duecentosei si perse per qualche minuto in una Les Paul del 1980 che sembrava venuta giù direttamente dal Paradiso. Suonare una meraviglia del genere, rifletté, doveva dare la stessa ebbrezza di una sbronza, solo senza i giramenti di testa e la diarrea del mattino successivo.
- Scansati, grassone! - la voce scortese di un adolescente vestito interamente in latex viola e truccato come un clown crudele lo riportò bruscamente con i piedi per terra.
- Hai sbagliato indirizzo, nonno. - ghignò la tipetta emaciata e coperta di piercing che lo seguiva - L'ospizio è in fondo alla strada.
Prima che potesse ribattere qualcosa i due s'erano già allontanati, inglobati in una folla di loro coetanei che sotto il palco assistevano all'esibizione di un marmocchio mascherato da alieno che smanettava con un pc traendone suoni simili a rutti. Mentre guardava quei ragazzi ballare Duecentosei si sentì un dinosauro, una presenza ridicola capitata in un mondo che non capiva e al quale non apparteneva, e dovette strizzare forte gli occhi per impedire alle lacrime di rigargli il viso flaccido. Eppure gli sembrava di ricordare un tempo in cui le cose andavano diversamente, un tempo in cui lui
Un crunch assordante lo fece trasalire. Sul palco era comparso una specie di trio cyber-dark i cui componenti indossavano tute sonore che reagivano agli impatti generando suoni distorti. I tre si picchiavano a vicenda senza sosta, ed ad ogni parte del corpo percossa corrispondeva una nota differente; una ginocchiata all'addome emetteva un si minore, un pugno tra le scapole un fa diesis e via di questo passo mentre il pubblico accompagnava la performance con acute urla di eccitazione.
Duecentosei si portò le mani nei - pochi - capelli; possibile che soltanto lui giudicasse uno spettacolo del genere privo di ogni buon gusto? Era così superato, così bigotto da non riuscire a percepire la profondità di quella rappresentazione? Oppure non c'era nessuna profondità, ma soltanto tre idioti che si prendevano a botte vestiti come brutte copie degli X-Men? Improvvisamente scorse in un angolo un tavolo occupato da persone adulte ed ebbe la consolante sensazione di non essere del tutto solo; fissavano la messinscena sul palco con la sua stessa perplessità, si sarebbe potuto scommettere che non erano venuti là per vedere roba di quel genere.
I tre giovanotti conclusero il loro show con un salto mortale e s'accasciarono al suolo tra gli applausi; autodistruzione pura, pensò Duecentosei, e il suo disgusto si tradusse in una smorfia eloquente che gli restò a lungo appiccicata sulla faccia.
- Che c'è, rottame? - gridò qualcuno alle sue spalle - Non ti è piaciuta la canzone? Credi di saper fare di meglio, tu?
Si trattava dello stesso ragazzino di poco prima, solo più ubriaco e incazzato. Ai suoi occhi la sola presenza di Duecentosei in un posto come il Pentagram costituiva un'offesa intollerabile, fare una figura da coglione era il minimo che quel giurassico si meritasse per aver osato sconfinare.
- Allora, ti decidi a rispondere o te la fai addosso? - rincarò mentre i suoi simili gli si facevano intorno sghignazzando - Scommetto che sei così vecchio e grasso da non riuscire neppure a salire su quel palco!
Le risate di quei bastardelli lo ferirono come sassi, ma non accennò reazione. Dopotutto avevano ragione, quello era il loro territorio e lui non avrebbe dovuto trovarsi lì. Stava per andarsene con un'aria da cane bastonato che faceva pena quando uno degli uomini che aveva visto seduto al tavolo nell'angolo lo raggiunse a grandi passi.
- Hei, amico - gli disse - non dirmi che vuoi davvero darla vinta a quei mocciosi! Sali su quel palco e spacca il culo ai passeri, andiamo! Io so che ne sei capace!
- Non voglio guai. - mormorò Duecentosei - E poi non credo di saper suonare. Non so nemmeno come accidenti mi chiamo.
- Fallo per i miei amici. - insistette l'altro - Ho promesso che stasera gli avrei mostrato qualcosa di incredibile, e non voglio che restino delusi.
- Ma tu chi diavolo sei?
- Mi chiamo Pete Darner, piacere di conoscerti. Bevi qualcosa? Non fare complimenti, sei mio ospite.
Duecentosei bevve due bourbon, un Bloody Mary e mezza pinta di Black Paradise - un cocktail nero come l'inchiostro dal quale s'innalzavano vapori vermigli - poi avvicinò il muso a quello di Darner e gli parlò con voce impastata.
- Suono solo con quella. - disse indicando la Les Paul nella teca - Altrimenti non se ne fa niente.
Quindici minuti dopo era sul palco, con la testa che gli girava come la ruota panoramica di un vecchio luna-park e la chitarra a tracolla. Mezzo metro sotto i suoi piedi decine di diti medi ondeggiavano come tulipani nel vento, volavano sputi e insulti di ogni tipo. Rifletté sul fatto che decisamente non era popolare tra i teen-agers, ma decise che nemmeno loro gli piacevano troppo. Concesse un'ultima occhiata al resto della platea - il padrone del locale, preoccupatissimo per la sorte della sua inestimabile Les Paul, Darner e i suoi amici, le cameriere - poi provò un paio d'accordi e iniziò a cantare.
- Well, it's one for the money, two for the show
Che cazzo stava dicendo? Le parole gli uscivano di bocca quasi senza che se ne accorgesse, come se fosse bastato il primo tocco del plettro sulle corde per ridestare dentro di lui qualcosa che decenni di coma criogenico non erano riusciti a uccidere. Era come un neonato in una piscina, che nuota senza sapere quel che sta facendo mosso solo dal suo istinto.
- Three to get ready now go, cat, go
Gli bastarono un paio di pezzi per trasformare il Pentagram in una bolgia di gente che ballava sui tavoli agitandosi come indemoniata. Molti dei ragazzi sotto il palco continuavano a fissarlo con ostilità e a insultarlo, ma le loro tipe gli lanciavano strane occhiate voraci, tanto che Duecentosei iniziò a sospettare che lo trovassero sessualmente attraente. "Che roba" pensò, e improvvisò un movimento di bacino assolutamente esplicito.
Suonò per ore, e ricordò tutto: dagli esordi osteggiati dai benpensanti alla fama planetaria, dalle pubbliche affermazioni alle private miserie fino alla messinscena finale ideata per scomparire dalla ribalta. Quando saltò giù dal palco al puzzle delle memoria mancava ancora un solo tassello, e fu Pete Darner a fornirglielo.
- Sei stato grande Elvis. - disse l'ex tecnico della Cryoseep. - l'ho sempre detto che eri il migliore.
In strada stava albeggiando, le finestre dei palazzi si schiudevano lentamente come occhi di giganti assonnati.
- Vedrai che un giorno riuscirò a ripagarti, man. - disse Elvis gettando via una cicca. Sedevano sul ciglio di un marciapiede, spalla contro spalla come amici di vecchia data.
- Lascia perdere. - si schermì Darner - Io sono soltanto quello che ti ha tirato fuori dal frigorifero.
- Voglio rimettermi a suonare, scalzare un po' di feccia dall'airplay delle radio come ai bei tempi. Cosa ne dici?
- Che è il modo migliore di farti perdonare per averci presi tutti per il culo per quasi un secolo con quella balla del suicidio. Ma come andò veramente?
Una corriera s'accostò al marciapiede, il cartello con la destinazione non era chiaramente leggibile.
- È il mio mezzo, man. - disse Elvis alzandosi - Quella storia te la racconterò un'altra volta. Ci si becca in giro.
E così il Re se ne andò, sprofondato nel sedile in finta pelle di un autobus di terza classe. Pete Darner restò là seduto ancora a lungo, riflettendo sul fatto che nessuno avrebbe mai saputo che la Leggenda era resuscitata grazie a lui. Dettagli, si disse alla fine decidendosi a tornare a casa, quello che contava era che il mondo non sarebbe più stato lo stesso, e quando dall'autoradio di una Ford gli arrivò all'orecchio l'ultima hit dei Chip Chapper non poté fare a meno di ghignare. Quei poveri sfigati avevano i giorni contati.
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