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Comunque sia abbiamo perso

Ti cerco sempre, in ogni faccia strafatta della solita e monotona serata, e quando non ti trovo non posso fare altro che "perdermi", nuovamente. Dio mio quanto mi manchi, mi manchi come quella schifo di nicotina mentre mi uccido di vino.
Quanto tempo è passato? Mesi? Anni?
L'ultima volta che ci siamo "parlati" tu mi lanciavi dietro strane parole e grida, miste ad oggetti casuali presi un po' dove ti capitava. Ti fermasti solo quando un cacciavite mi penetrò un braccio, ma i tuoi occhi dicevano: strappagli il cuore e poi spremiglielo fino a sentire gli schizzi di sangue sulle labbra.
Ti chiesi a più riprese il motivo di tutta quella follia: perché uccidere noi?
Non mi risposi mai, mi lasciasti seduto in mutande sul quel divano vintage in simil pelle, col culo bagnato e appiccicato, impotente, perchè la non consapevolezza mi rese impotente quanto un bambino di fronte ad un cavallo imbizzarrito.
L'impotenza non portò nulla di buono, l'immobilismo mi pervase, d'altronde quando qualcosa di troppo grande ti sovrasta, le conseguenze sono scontate, le gambe ti cedono ti ritrovi in ginocchio e subito dopo steso a terra incosciente, ignorando tutto, sia la causa, sia il principio, che la fine di ciò che ti è passato sopra.
Rimasi li seduto ore, giorni, non so dire quanto: mio fratello impiccato, il divorzio dei miei, io da piccolo mentre i miei compagnetti di scuola bastardi mi tagliano ciocche di capelli, il mio cane morto d'infarto, tu fuggita via. tutto passava davanti e le lacrime che mai versai, incominciarono a sgorgare indomite finché non ebbi neanche più la forza di pensare e crollai sfinito sul letto sfatto da giorni.
Quando mi ripresi e capii che non saresti più tornata, incominciai ad accatastare le tue cose dentro un armadio, ma non capivo perché lasciasti tutto esattamente al suo posto, come se fossi uscita soltanto per andare a comprare delle sigarette, come se stessi per rientrare da un momento all'altro.
Poi d'incanto quella tua vecchia e logora agenda nera, quasi appallottolata e tenuta chiusa da uno spago, con tutte quelle pagine staccate che venivano fuori a intervalli irregolari, saltò fuori da una coperta ripiegata nell'armadio. Lessi tutto d'un fiato. La mattina era già diventata sera quando finii e solo allora capii cosa era successo: i tuoi pensieri più intimi svelati tutti in una volta, alcuni mi accarezzavano il viso come dolci carezze, altri come un cazzotto in piena faccia mi fecero sanguinare, ero partecipe e sapevo perché eri andata via.
Proprio come me odiavi i ricordi. Certo io mi concentravo sempre su quelli tristi e sfortunati, ma la tua mente era andata oltre, ahimè, raggiungesti un livello molto superiore di dannazione, ti rendesti conto che sia quelli belli che quelli brutti generavano sensazioni odiose, nostalgia e tristezza e non davano spazio in te, se non all'oblio.
Giorno dopo giorno stavi a pensare, mentre il cervello marciva per tutto quel nero e il cuore avvizziva colmo di veleno, così per caso trovasti un modo per dimenticare tutto, cancellare la nostra prima volta, l'assassinio di tua madre dieci anni prima, tuo fratello schizofrenico, gli abbracci teneri dei tuoi genitori quando ancora eri bambina, mentre sfogliavi le pagine ruvide di un libro trovasti la descrizione di una procedura utilizzata da un serial killer americano, Jeffrey Dhamer.

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3 commenti:

  • Elena il 14/01/2013 15:42
    Bello e sopratutto profondo..
  • Alessandro il 04/07/2011 23:50
    grazie..
  • Virgi Garcia Mundòz il 02/07/2011 19:42
    Complimenti, racconto molto intenso e ricco di particolari. Scritto di getto, senza mezzi termini, schietto e sincero. Bravo!

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