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Lei
Il sole stava lentamente sorgendo in tutta la sua maestosità, regalando le prime luci al mondo, le prime energie alle piante, le prime speranze o disgrazie agli uomini, la prima linfa vitale all'universo, quando il suo occhio si aprì.
Non fu un risveglio tranquillo.
Le palpebre si aprirono di botto, come per uno spavento, un trauma, un incubo, la sua pupilla si dilatò troppo velocemente.
Il suo colore, quasi arancione come un'ambra, era nitido e pieno di sfaccettature impercettibili. La luce che pian piano entrava dalla finestra lo colorava d'oro.
Rimase così per qualche minuto, ferma in quel risveglio pieno d'ansia.
Oramai ci era abituata.
Quei risvegli così sgradevoli, come dopo un brutto sogno di cui non si ricorda nessun particolare, nè il luogo, nè personaggi o storia, niente, solamente quella sensazione di aver fatto un incubo, di morsa allo stomaco che stringe i pensieri in un involucro di tristezza e confusione, di paura e smarrimento, di assenza e di vuoto, senza spesso conoscerne la motivazione.
Lei invece la conosceva benissimo.
Si alzò sul letto, rimanendo con una semplice e leggera coperta gialla che le copriva le gambe nude, guardando verso la finestra di camera sua, dove lo scenario era un paesaggio in pianura, un campo ingiallito e leggermente bruciato, erbe incolte e su un lato tante ville a schiera con giardini più o meno ben curati.
La luce aumentava minuto dopo minuto, e cominciava a riempire e colorare sempre più la sua piccola e disordinata stanza.
Ogni cosa era nel posto sbagliato là dentro. I jeans buttati in terra, la felpa sopra il ventilatore, le scarpe sparpagliate sotto il letto, una scrivania piena zeppa di libri e fogli senza alcun ordine logico, una sedia con delle mutandine e un reggiseno usati, un armadio con le ante sempre aperte e poco vestiario dentro, due paia di scarpe rovesciate sull'uscio della porta, sul tappeto un phon ancora attaccato alla presa elettrica, un comodino con una sveglia con le lancette ferme, degli occhiali da vista e una foto coperta da una canottiera, una poltrona marrone con un gatto bianco che ancora dormiva beato e un letto matrimoniale sgualcito e con le lenzuola sudate.
L'unico particolare degno di nota in quell'inferno era il suo viso. I suoi grandi occhi, espressivi e stanchi, le occhiaie appena accennate segnalatrici di una nottata difficile, il suo piccolo naso dalla leggera e sottile gobba, le sue sopracciglia scure nè troppi fini nè troppo grosse, le sue labbra carnose e sensuali, la fossetta che si delineava sulla guancia quando sorrideva, il suo neo sotto l'occhio destro, i capelli castani lunghi e mossi, la sua espressione sempre più assente.
Quando la luce le coprì tutto il viso, si alzo e andò più vicino alla grande finestra, per poter essere completamente illuminata.
Sperava che quella luce le desse il calore di cui aveva bisogno per superare quella freddezza, quel gelo che dentro di lei prendeva sempre più la forma di un iceberg. Poco visibile, ma presente.
Ora, di fronte alla finestra, anche il suo corpo cominciava a brillare.
La luce prima le illuminò i piedi nudi, piccoli e un po' scuri sulla palma, poi la linea delle gambe dritte ed eleganti, dai polpacci alle prosperose cosce per poi salire in alto, dove il suo sedere rotondo e ben disegnato rimaneva all'ombra, fino ad arrivare sulla sua pancia piatta e al suo seno, piccolo e sodo, il suo collo con tanti piccoli nei e infine ancora il viso.
Guardava fuori.
Era una bella giornata di sole, poche nuvole e giusto una piccola brezza di vento fresco. Ma lei non pensava a tutto questo.
Fissava un punto immaginario, come se fosse in uno stato di ipnosi, e in quel punto si focalizzavano i suoi pensieri, che prendevano forma, colori, suoni, sapori e sentimenti. Qualcosa simile ai ricordi.
Erano come dei flash proiettati dall'occhio della sua mente.
E in quelle proiezioni vedeva quella camera, poco illuminata, quasi buia e sempre disordinata, con due figure scure all'interno, irriconoscibili come due ombre.
Queste si guardavano con curiosità e pian piano, con la stessa curiosità, si toccavano. La figura maschile spogliava e accarezzava dolcemente e lentamente quella femminile in tutto il suo corpo. Non tralasciava un solo particolare, un solo spazio di pelle e di carne. L'ombra femminile si sentiva apprezzata, desiderata, eccitata. Poi l'ombra maschile la portò verso di se, più vicina, in modo da poter sentire il profumo dei suoi capelli e della sua pelle ed annusarla più volte, fino a unire le loro labbra in un lungo passionale bacio misto di profumi, sapori e immagini.
Lei intanto continuava a guardare quel punto, immobile. Sembrava che il mondo si fosse fermato aspettando un suo segnale.
E mentre tutto era fermo, la sua mente, i suoi ricordi, viaggiavano veloci.
E producevano un nuovo flash.
Sempre quella camera, sempre due ombre, questa volta distese su quel grande letto matrimoniale disfatto, due ombre senza vestiti unite in una sola in un atto di reciproco piacere e adorazione, due corpi che si muovevano all'unisono in un affanno di respiri, di sguardi e di sorrisi, in un'orgia di suoni e di gesti, tutti indirizzati verso uno scopo: la libertà.
La libertà di essere sè stessi, di non vergognarsi dei propri difetti, di lasciarsi andare, di amare e di essere amati.
A quel pensiero, a quei corpi nudi che si parlavano e si muovevano in simbiosi, un brivido le corse come un velocissimo millepiedi sulla schiena, fino ad arrivare al suo cervello. I suoi capezzoli si indurirono, diventando turgidi.
Quel lampo di eccitazione fu quasi subito interrotto dal gatto che dormiva sulla poltrona marrone, che le morse giocosamente le dita dei piedi. Era un piccolo gatto bianco, leggermente peloso, con gli occhi celesti e le orecchie marroni.
Lo prese in braccio, accarezzandolo con delicatezza, facendolo ronfare e in seguito riaddormentare.
Posò di nuovo il gattino sulla poltrona, e decise che era tempo di uscire di casa. Era una così bella giornata!
Fece una rapida colazione, un tè alla pesca e un pezzo di crostata all'albicocca, per poi buttarsi sotto l'acqua calda della doccia.
Si lavò senza spugna con un bagnoschiuma al cocco, e si lavò a lungo i capelli con uno shampoo e un balsamo al gelsomino.
Dopo una lunga doccia era profumatissima. Eppure non riusciva a sentire il suo odore, quello della sua pelle.
Si mise l'accappatoio verde e si asciugò i capelli col phon, e guardandosi allo specchio chiese a sè stessa se era una bella donna.
Era giovane, e anche se tutti le ripetevano che era bellissima, lei trovava sempre dei difetti nel suo viso, nel suo corpo. Forse per umiltà, o magari per vanità, non accettava l'idea di essere considerata così bella. Preferiva che le persone la ricordassero per la sua simpatia, per il suo carisma, per le sue idee, non per un corpo che prima o poi sarebbero diventato stanco e rugoso.
Concentradosi sulla sua espressione allo specchio, si riperse inconsciamente nel punto dei ricordi, dando vita ad un'altra proiezione nella sua testa.
Il flash era sempre lo stesso: due ombre irriconoscibili. Questa volta erano distese sul letto, come dopo aver fatto l'amore, e parlavano, ma non si riusciva a capire bene cosa dicessero, non si sentivano le loro parole...
Poi lui si alzò di scatto, come indispettito, e cominciò a rivestirsi rapidamente. Lei provò ad abbracciarlo, ma lui la scansò via borbottando chissà cosa.
Si accorse che si stava per bruciare i capelli, il phon era troppo vicino alla testa. Andò in camera e si cambiò. Si mise un tanga viola e un reggiseno dello stesso colore, un vestito blu elettrico lungo fino alle ginocchia, delle scarpe basse color indaco, una collana e due orecchini dai motivi stile "hippy" e un cerchietto blu scuro. Tutta la camera era illuminata dalla luce della giornata.
I capelli erano mossi e leggermente bagnati, con il lungo ciuffo che le copriva metà fronte quasi come una frangetta.
Decise di truccarsi. Si sarebbe messa un po' di ombretto celeste e un tocco di matita sugli occhi. Non le piaceva truccarsi molto, si piaceva così, naturale. Era sempre piaciuta così.
Si mise anche un po' di lucidalabbra, e mentre se lo passava sulle labbra color rosato, si perse di nuovo in un flash.
Burrascoso, cupo, tetro e irrefrenabile.
Le due ombre, sempre indistinguibili se non per la loro forma, discutevano a voce alta in quella buia camera. Non si intuiva cosa stessero dicendo, non si poteva capire il perchè di quella tempesta dopo la quiete. I suoni ora non erano più muti, si poteva sentire qualcosa, ma erano come un grido soffocato, una voce flebile e distante, come se provenisse dal fondo di un vecchio pozzo.
Poi, nel mezzo delle parole, si sentì nitidamente il rumore netto di uno schiaffo. La mano si schiantò sulla guancia. L'ombra femminile lo colpì con forza, con rabbia, forse frustrazione. L'ombra maschile rimase fermo per qualche secondo, come a incassare quel dolore, più mentale che fisico. Senza pensarci troppo, prese alcune cose, forse una giacca e delle chiavi, e se ne andò via sbattendo la porta, senza girarsi indietro.
L'ombra femminile non disse e non fece nulla.
Si accorse che aveva sbordato fuori dalle labbra mentre si passava il lucidalabbra. Si era sporcata tutta la guancia.
Si pulì con un fazzoletto e poi strinse forte le mani, formando due pugni stretti e tremolanti. I denti che digrignavano dalla rabbia.
Non doveva far uscire quella lacrima. Non dopo essersi truccata, almeno aveva una scusa in più per resistere.
Si cosparse sul collo il suo profumo preferito, prese la borsa e poi uscì frettolosamente di casa, come per lasciare racchiusi là dentro quei flash ossessivi.
Una volta uscita, sentì subito quell'aria fresca, quella leggiadra brezza che le accarezzava il collo. Ma non la fece sorridere.
Si chiese per chissà quante persone sarebbe stato un gran bel giorno.
Si diresse a piedi verso la stazione, salutando con poca attenzione qualche faccia amica.
Il treno per fortuna arrivò subito, e ancor più fortunatamente trovò posto a sedere. Il tragitto non era lungo, nemmeno mezz'ora, e come ogni volta che viaggiava, si metteva alle orecchie il suo lettore mp3.
Si accorse però, che molte delle canzoni che stava ascoltando le procuravano cattivi pensieri, ma nonostante ciò continuò comunque ad ascoltarle.
Persa fra quelle note, ritrovò i suoi ricordi oscuri, pieni di ombre.
Un'ombra correva alla finestra, urlando qualcosa verso l'altra ombra che era giù in strada, mentre saliva su un'auto. Lei urlava, diceva frasi senza senso, taglienti e decisamente poco veritiere. L'ombra nell'auto fece partire la macchina velocemente, come per scappare il più in fretta possibile, colto da un'improvvisa rabbia e tristezza. Rumori assordanti di motore, di gomme bruciate sul pavimento, di benzina, un'immagine di fuga. Questo se lo ricordava bene.
Il treno suonò la fermata. Era la sua. Scese nella stazione e vide mille persone che non conosceva, che camminavano frenetiche, che non la guardavano negli occhi, tutte prese da chissà quali problemi o gioie o forse dal nulla. Qualche ragazzo in mezzo a quella folla la notava, e dai loro sguardi, capiva immediatamente che pensavano a quanto fosse bella. Lo capiva da come veniva squadrata, dai gesti provocatori e dai sorrisi ammiccanti. La guardavano esteriormente, per il suo corpo e per la sua sensualità, senza soffermarsi sui suoi occhi, senza notare i particolari che la rendevano unica e per i quali lei avrebbe voluto essere apprezzata, senza sentire le grida dei suoi pensieri. Quegli sguardi le ricordarono che sentirsi osservata poichè palpabilmente bella e sentirsi profondamente amata da chi la conosceva bene, erano due sensazioni molto distanti d'intensità.
In quell'istante, sentì la mano gelida dell'indifferenza che le toccava la spalla.
Imprecò qualcosa a voce bassa e continuò a camminare. Tutta quella gente, quella visione così rude e distaccata, le fece venir voglia di andare altrove a prendere aria. Aveva bisogno di pensare.
L'aria del porto era l'ideale. Lì, seduta su una panchina, avrebbe ritrovato la calma, la serenità. Avrebbe dato un senso a quel litigio che aveva distrutto tutto, che aveva logorato le sue idee, i suoi pensieri, le immagini che con tanta cura avevano creato insieme.
Ma dove avevano sbagliato? Perchè era accaduto tutto ciò? Non aveva alcun senso. Loro stavano bene insieme. Si divertivano, giocavano, parlavano, si aiutavano, erano complici e amanti.
Doveva bloccare quei pensieri immediatamente. Sentiva lo stomaco che le cominciava a borbottare, gli occhi bruciare, il corpo ansimare.
Aprì la borsetta cercando una caramella e invece trovò un bigliettino.
Era uno di quei biglietti comprati in cartoleria, quelli che vengono usati spesso per compleanni, anniversari e occasioni speciali.
Il suo era diverso.
Nella copertina c'era disegnata una mucca in piedi con un piccolo broncio sul viso, e nella pagina centrala invece vi era una sola scritta: "Perdonami... Facciamo pace?".
Aveva comprato quel biglietto il giorno dopo la lite, perchè voleva subito chiarire e risolvere quella situazione di apatia e di dolore che non riusciva a controllare, tantomeno a sopportare. Perchè per lei non aveva alcun senso.
Lei voleva vivere spensieratamente con lui, prendersi per mano e passeggiare parlando di tutto, stare in silenzio per ore senza mai sentirsi a disagio e poi ascoltare i problemi, le risate, i pensieri più nascosti e intimi. Tutte cose che avevano imparato a fare insieme.
Magia che le risultava difficile descrivere a parole, ma che sentiva dentro di sè chiara e netta, senza dubbi o smagliature. Era qualcosa di inaspettato, forse inconsciamente immaginato, come un'utopia che alla fine poi non si avvera. E invece lei era stata fortunata... Si sentiva così.
E avrebbe voluto tenere dentro di sè, ancora un'altra volta, quella magia.
Si avvicinò verso le barche ormeggiate al porto, ascoltando il lieto ronzio dell'acqua che sbatteva contro le imbarcazioni.
Guardava l'orizzonte, cercando risposte, cercando altri perchè.
Non ne trovò nemmeno uno.
Poi pensò che lui si era comportato male. Perchè quelle parole? Perchè era andato via così velocemente? Avrebbero dovuto parlare, e invece no, lui, col suo orgoglio tipicamente maschile, aveva deciso di arrabbiarsi più del dovuto e di voltarle le spalle quella notte. E poi via correndo giù per le scale fino alla macchina. Lì si erano allontanati, e in quel preciso momento, lui avrebbe dovuto fermarsi, pensare che infondo stavano commettendo una stronzata a prendersela così tanto per una piccolezza.
Così, in un raptus di follia, di ira inconscia verso tutto ciò che la circondava e non la rendeva libera come avrebbe voluto, lanciò in acqua il bigliettino di scuse.
Solo dopo che questo cominciò lentamente ad andare verso il fondo si disperò per quel gesto. Cominciò a saltare contro la ringhiera che la divideva dall'acqua, come cercando di trovare una soluzione a quell'errore. Il panico le faceva mancare il fiato.
Ma il bigliettino sparì dalla sua vista in pochi secondi.
E fu un altro attacco, un'altra volta quei maledetti borbottii allo stomaco, e quella voglia di stringere le mani a pugno, e la volontà di resistere, di non fare uscire nemmeno una lacrima.
Chiuse gli occhi, fece un bel respiro profondo, e si allontanò dal porto.
Ma la giornata non proseguì meglio.
Passeggiando per la città, tutti sembravano felici, tranne lei.
Focalizzava l'attenzione sulle coppiette: al semaforo pedonale le si affiancarono due adolescenti, che si baciavano ripetutamente come colti nel pieno di una crisi d'astinenza, fino a sbattere contro il muro di una casa, per poi rimanervi incollati baciandosi.
Sorvolò e proseguì la camminata.
Seduta ad un bar a bere una limonata, vide che il giovane cameriere palpava vistosamente il sedere di una cliente. I due probabilmente stavano insieme e giocando facevano finta di non conoscersi.
Si alzò e andò via dimenticandosi di pagare.
Tornando verso la stazione vide un'altra coppia, all'incirca sui cinquanta o sessant'anni, che passeggiavano serenamente in silenzio presi per mano.
Erano in pace, insieme.
Questa volta non riuscì a sorvolare. Sentì nitidamente che le mancava qualcosa. Quel qualcosa che le aveva riempito l'esistenza giorno dopo giorno, diventando come una costante. E tutto ad un tratto cominciò a vedere quella costante ovunque: nei negozi d'abbigliamento, pensando alle sue camicie, nei ristoranti, ricordandosi i suoi piatti preferiti, nelle vetrine delle profumerie, riassaporando il suo odore, nei cinema, rivedendo i film che adorava, nel cielo, guardando le stelle. Chiuse gli occhi con forza per scacciare via quelle immagini e si riperse nuovamente nei suoi flash.
L'ombra femminile piangeva sul letto, copriva una foto delle due ombre sul comodino lanciando una canottiera, si rigirava fra le coperte in preda alla follia.
Tornò per un attimo alla realtà, sentendosi sudata.
Ma fu questione di pochi secondi, e ritornò subito dopo nel suo punto dei ricordi.
Un flash con le due ombre sempre protagoniste che si abbracciavano, poi un altro flash, ancora quella discussione, ancora quello schiaffo, quelle urla soffocate, poi un altro, lui che correva via in macchina, e un altro, lei che si chiedeva cosa diavolo fosse successo, e ancora un altro, un altro e...
Si ritrovò nella sua stanza, con una leggera luce che entrava dalla finestra. Il sole stava appena sorgendo. Si sentiva appiccicosa. Doveva aver sudato parecchio quella notte. Il suo gattino che dormiva profondamente, tutto accovacciato.
Sentiva addosso la sensazione dell'incubo, ma non era come se lo avesse sognato, era piuttosto come se l'avesse vissuto davvero.
Passarono solo pochi secondi, e si rese conto che quell'incubo, quella sinistra sensazione, era più reale di quanto pensasse.
Si girò verso il comodino e tolse la canottiera che copriva la foto. La guardò a lungo. Vi erano raffigurate due persone. Un ragazzo magro, alto e castano, e una ragazza, più bassa di lui, anche lei magra e castana.
Erano giovani e sorridevano. Lui con un sorriso un po' smorzato, dettato dalla timidezza dell'essere fotografato. Lei, più sciolta, con un sorriso aperto che sapeva di felicità e di primavera.
Si abbracciavano. La foto era spezzata a livello del bacino e le loro mani non si potevano vedere, ma lei ricordava bene che erano unite. Sullo sfondo un tramonto, un mare, una spiaggia lontana.
Prese quella fotografia e la portò verso il suo seno, stringendola forte a sè. E finalmente si lasciò andare.
Una piccola lacrima scese lungo la sua guancia. Fredda e sincera.
Poi un'altra, seguita da altre cento.
Era un pianto pieno di tenerezza, di nostalgia e di amarezza.
Ma anche di quell'associazione di sentimenti, di immagini, di idee e pensieri che comunemente tutti chiamano amore.
Dopo quel pianto, quella fuoriuscita di emozioni nascoste, le fu chiaro cosa doveva fare.
Rifece tutto come nel sogno: la colazione con la crostata e il tè, usò lo stesso bagnoschiuma e shampoo per lavarsi, si lasciò leggermente i capelli bagnati, si truccò, si vestì e si profumò allo stesso modo di come l'aveva immaginato.
Uscì velocemente di casa e prese il treno.
Era decisa ad andare fino in fondo.
Doveva risolvere quella situazione, non poteva vivere con quel peso dentro, con quella mancanza. Doveva andare da quell'ombra. Da lui.
Appena scesa dal treno, andò verso il centro della città e si fermò da un fioraio. Comprò una rosa rossa, proprio come quella che lui le aveva regalato tanto tempo prima per regalarle un sorriso.
Fiera per aver ritrovato la sua forza e il suo coraggio, si diresse verso il suo obbiettivo. Doveva rivederlo, non poteva farne a meno. Era giunto il tempo di vedersi e di chiarirsi.
Camminando verso la sua meta, riuscì a pensare a quante cose aveva condiviso, quante persone aveva conosciuto, quante volte aveva pianto o riso nel corso della sua vita.
I ricordi si fecero più forti, senza flash, senza ombre, vivi e presenti nel sangue, nell'immagine della sua essenza, trasformati in sensazioni che le attraversavano su e giù tutto il corpo e che le riempivano la mente.
Arrivò all'ingresso della dimora dell'ombra protagonista dei suoi flash. C'era un grande giardino, molto curato, un odore di solitudine che regnava nell'aria, tante persone che passeggiavano, tutte in silenzio, assorte nel loro piccolo mondo personale, e mentre si avvicinava a lui, le gambe le tremavano sempre più. Nella sua testa riaffiorarono foto, parole, pensieri, canzoni e film che avevano vissuto insieme.
Tutto era così ben distinto. Ogni singolo ricordo. Da quelli felici ai rimpianti, alle parole non dette ai tempi spensierati a rincorrersi l'un l'altro, fino a quelli più drammatici. Come il rumore di quella notte, del ferro, dei fischi, delle lamiere, dell'esplosione e del fuoco. E un'ombra che vi bruciava dentro.
Quando fu di fronte a lui, non riuscì a dire niente. Si immobilizzò. Proprio come quando guardava fuori dalla sua finestra.
Pensò solamente a quanto era stato stupido litigare, non ascoltarsi e non provare a capirsi con qualche carezza, a quanto fosse inutile allontanarsi per sciocchezze quando entrambi volevano stare vicini, a contatto diretto, per vivere meglio ogni giorno, pensò a quanto invece fosse importante volersi bene e resistere anche nei momenti difficili, quelli in cui si pensa che tutto stia andando storto, quando si prova quel brivido di paura di perdere ciò a cui si tiene di più, ciò che, ammettendolo con sincerità a sè stessi, da una ragione in più per svegliarsi al mattino.
Non riuscì a dirgli tutti questi pensieri. Ma avrebbe tanto voluto.
Mise solamente la rosa rossa che aveva in mano sopra il suo corpo di marmo, sul suo nome e sulla sua data di nascita, su quella foto che lei stessa gli aveva scattato.
Rimase lì, in piedi, con le mani nelle tasche del vestito, a guardare quella foto e quegli occhi nei quali non avrebbe mai più potuto specchiarsi, in balia dell'onda irrefrenabile dei suoni e delle immagini dei ricordi nei quali avrebbe continuato a farlo vivere.
Il sole era alto nel cielo. Poche nuvole, una leggiadra brezza di vento che le faceva svolazzare il vestito e che muoveva dolcemente i petali della rosa.
Controllò la borsa che aveva con sè, cercando il bigliettino che aveva comprato quel giorno lontano oramai un mese.
Ma il biglietto non c'era...
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